Il Sè Digitale

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia

N. 8 Agosto 2023

Abstract

The advent of social media has led to the birth of new identities with the consequent redefinition of the Self. Even researchers and scholars had to adapt their theories to the new that was advancing with a disruptive force: here is the emergence of the Digital Self and the new conceptions enclosed within the dialogical Self. Suddenly they had to deal with an individual who, through storytelling and the publication of images and posters, built his identity according to virtual relationships. To complicate the situation, having to take into account different realities and modes of behavior depending on whether you were online or offline. The present work reviews the scientific literature that revolves around these topics, assuming, if subsequent research data should confirm it, that narrating oneself on the net performs the same functions as narration within novels or short stories, that of being able to resolve, through writing and self-examination “The Digital Self”, previously experienced.

Riassunto

L’avvento dei social media ha comportato la nascita di nuove identità con la conseguente  ridefinizione del Sé. Anche i ricercatori e gli studiosi hanno dovuto adattare le loro teorie al nuovo che avanzava con una forza dirompente: ecco l’emergere del Sé Digitale e le nuove concezioni racchiuse all’interno del Sé dialogico. All’improvviso  si sono dovuti fare i conti con un individuo che,  attraverso lo storytelling e la pubblicazione di immagini e poster,  costruiva la sua identità in funzione delle relazioni virtuali. A complicare la situazione il dover tenere conto di realtà e di modalità comportamentali  diverse a seconda se si era online o offline.  Il presente lavoro passa in rassegna la letteratura scientifica che ruota attorno a questi argomenti ipotizzando, se i successivi dati di ricerca dovessero confermarlo, che il narrarsi in rete di fatto svolge le stesse funzioni della narrazione all’interno dei romanzi o dei racconti ovvero quella di poter risolvere,  attraverso la scrittura e l’autoesame  “Il Sé Digitale”, traumi precedentemente vissuti.  

Sè digitale

Introduzione 

Il rapporto tra web e fenomeni culturali e sociali è contrastato e, spesso, si addebita alla rete la causa di molti mali che affliggono il sistema sociale e gli stessi individui. Anche le stesse trasformazioni che sono intervenute nella costruzione dell’identità e del sé vengono arbitrariamente addebitate allo sviluppo della tecnologia e all’avvento dei social media. I cambiamenti  vengono vissuti con sospetto e quasi sempre diventano la fonte di tutto ciò che apparentemente non trova spiegazione. Purtroppo, malgrado l’avvento della seconda cibernetica, siamo imprigionati all’interno di una logica di tipo lineare e deterministica in cui dato un effetto dobbiamo ricercare e trovare la causa che si nasconde dietro di esso.I fenomeni sociali e culturali data la loro complessità sfuggono a questa regola e ciò che può essere effetto è nello stesso tempo causa e viceversa.  E’ il caso delle definizioni del sé digitale e, della conseguente, identità digitale. 

Non vi è dubbio che “la rivoluzione digitale e la pervasività delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno modificato la percezione non solo della realtà in cui l’individuo vive ma anche l’essenza della sua unicità, la sua percezione di sé e la sua identità” (Africa, 2021), ma è altrettanto vero che fenomeni simili sono avvenuti, nel corso della storia dell’umanità, regolarmente a fronte di ogni innovazione di tipo tecnologico (Carr, 2011). E non solo, malgrado siano cambiati i medium delle relazioni, alcuni parametri sono rimasti immutati e resteranno immutabili  ovvero che la costruzione dell’identità avviene  ed avverrà attraverso l’Altro.  Senza l’Altro vengono meno il senso di appartenenza, il riconoscersi e l’essere riconosciuti.  

Come avvertono McKenna e Bargh (2000), infatti, i ricercatori spesso  si sono avvicinati a questi temi cercando di applicare precedenti teorie psicologiche senza tenere conto dei nuovi contesti .  La grande sfida, al contrario, è di sviluppare teorie che tengano conto dei mutamenti avvenuti per spiegare il significato del sé digitale e, di conseguenza, dell’identità.  La Turkle (1995), a tal proposito, fa  notare che “il computer ci aiuta a scrivere, a tenere aggiornata la contabilità, a comunicare con gli altri ma ci offre anche sia nuovi modelli mentali sia un nuovo medium sul quale proiettare idee e fantasie. Il computer è un secondo io. Quando entriamo nelle comunità virtuali attraverso lo schermo, ricostruiamo le nostre identità dall’altra parte dello specchio”.  

Per parecchi autori la costruzione del sé inizia da bambini davanti allo specchio.  Toselli e Molina (1995) sostengono che “il riconoscimento è indice di una acquisita immagine di Sé, che presuppone un processo di differenziazione dal non me, l’altro e prelude alla più raffinata rappresentazione di Sé che ci accompagna e si arricchisce in tutto l’arco della vita. Nel seguire le vicende del rapporto con l’immagine speculare non si risolve la questione della coscienza di sé che, evidentemente, non è costruita solo intorno al corpo, in particolare il volto, ma coinvolge altre rappresentazioni; tuttavia la situazione allo specchio è una rara occasione di rendere intersoggettivamente rilevabile, e in modo inequivocabile  ….”.

Una puntualizzazione della suddetta definizione la possiamo trovare nella distinzione operata da Jervis (1989) sul concetto di sé nel quale distingue un significato strutturale – oggettivo e uno riflessivo- esperenziale e in quanto tale soggettivo. Con le parole dello stesso autore all’interno del sé “vi è un nucleo di molteplici immagini (auto)esperienziali, [. .. ] moltitudini di “vissuti di sé” che costituiscono per ciascuno di noi la continuità con noi stessi e col nostro passato, [che] sono in primo luogo e propriamente rappresentazioni e quindi contenuti della coscienza, o più in generale della mente (in parte infatti rifluiscono nell’inconscio). Ad esso si può contrapporre un significato oggettivato, un Sé cioè esistente quale sorta di struttura, un insieme di funzioni mentali”.

Prima di Jervis, anche Rosemberg  (1997) aveva distinto un social exterior e un psychological interior nelle concezioni di Sé.  Il social exterior riguarda gli aspetti visibili esternamente di un individuo, come l’altezza, il peso, i vestiti e il comportamento, mentre lo psychological interior riflette il mondo interiore dell’individuo, costituito da pensieri, emozioni e desideri.  

Da queste considerazioni Hermans e alt. (1992 – 1996) elaborano il concetto di Sé Dialogico come una molteplicità dinamica di posizioni relativamente autonome in un paesaggio immaginario. In questa concezione, l’Io ha la possibilità di muoversi, come in uno spazio, da una posizione all’altra in accordo con cambiamenti di situazione e di tempo. L’Io oscilla tra diversi e persino opposti posizioni e ha la capacità di dotare in modo fantasioso ogni posizione di una voce in modo che possono essere stabilite relazioni dialogiche tra le posizioni. Le voci funzionano come personaggi che interagiscono in una storia, coinvolti in un processo di domanda e risposta, accordo e disaccordo. Ognuno di loro ha una storia da raccontare sulle proprie esperienze, la propria posizione. Come voci diverse, questi personaggi si scambiano informazioni su i loro rispettivi Me, risultando in un sé complesso, narrativamente strutturato.

Considerazioni

Il concetto di Sé dialogico nasce e si sviluppa a partire dagli anni novanta con il progressivo espandersi della rete internet e la nascita dei social media poiché l’identità non si intende più  come un nucleo di tratti o aspetti relativamente stabili o definiti in modo più o meno innato, quanto piuttosto come  un costrutto complesso e molteplice, soggetto ed oggetto di continue costruzioni e ricostruzioni.

Ligorio e Hermans ( 2005) rilevano che l’identità non è più riferita solo alla costellazione individuale del Sé ma dalle dinamiche relazionali, che nascono e si sviluppano nella vita quotidiana degli individui sia nei contesti offline che online. Ciò presuppone una maggiore “liquidità” della struttura identitaria sensibile ai cambiamenti nel continuo passaggio dal mondo reale a quello virtuale. L’identità si ridefinisce così attraverso lo specchio delle relazioni, non solo concrete ma anche costruite direttamente nel mondo virtuale della rete, in un processo continuo di costruzione-decostruzione della propria identità.

Il Sé, infatti, concepito come dialogico presenta una serie di caratteristiche distintive che devono manifestarsi nel comportamento degli individui in più contesti (Hevern, 2000). A tal fine il Sé dialogico deve essere:

  1. Spazialmente organizzato: il sé occupa e si muove in uno spazio immaginario (Hermans et al., 1992)
  2. Narrativamente strutturato (temporalmente organizzato): il sé come narratore si muove attraverso e rende conto dell’esperienza nel tempo attraverso le storie (Hermans, 1996)
  3. Narratore motivato: il sé esprime la motivazione nel raccontare storie (Hermans e Hermans-Jansen, 1995).
  4. Incarnato: il sé è radicato nel mondo fisico piuttosto che disincarnato o funzionando come una mente puramente razionalista o cartesiana (Hermans et al., 1992).
  5. Sociale e multivoce: “altre persone occupano posizioni nel sé multivoce” (Hermans et al., 1992) dove la multivocalità descrive una relativa autonomia per le voci che occupano le posizioni: “Una posizione è come un’altra persona nel sé, con la propria voce o prospettiva sonora. Ciò implica che ogni posizione è dotata dell’agente qualità dell’io e funziona come un centro originario di organizzazione nel sé” (Hermans, 1996).

Sostanzialmente all’interno dell’individuo convivono diversi sé che dialogano continuamente tra di loro e indicano la presenza di una identità ricca e flessibile che permette all’individuo di adattarsi a diversi contesti. Per posizionamenti del sé, infatti, con Harrè e Van Langenhove  (1991), possiamo ipotizzare e l’esistenza di una dimensione spaziale del Sé popolato da diverse identità che occupano posizioni specifiche dello Spazio-Sé che si arricchiscono dell’incontro con l’Altro: i dialoghi interni si intersecano con il dialogo interpersonale generando nuove forme di posizionamento del Sé, nuovi modi di essere nelle relazioni e nei contesti. L’identità, quindi, si costruisce attraverso i dialoghi con l’altro e si rinnova continuamente in base alla qualità e quantità delle interazioni e dei contesti (Renati et alt. 2011).

La rete da questo punto di vista costituisce, come affermato da Ligorio e Hermans (2005), un’opportunità funzionale alla crescita del sé dialogico poiché offre le possibilità di molteplici interazioni all’interno del cyberspazio e, di conseguenza, le opportunità di ridefinizione delle identità.  Quest’affermazione è suffragata da molti studi e ricerche che sono stati realizzati negli ultimi vent’anni (Hevern, 2000; Ligorio e Pugliese, 2004; Ligorio, Pugliese, e Spadaro, 2004; Talamo, Ligorio e Zucchermaglio, 2004) i quali affermano che internet e il web, in particolare, è  un ambiente in cui sarebbe possibile strutturare l’identità .

Come ha osservato Lévy (2011), la virtualizzazione non è una derealizzazione, ma un cambiamento di identità. Il «Sé digitale» non è però solo una estensione e potenziamento delle nostre capacità mentali, ma sta diventando un vero e proprio sdoppiamento della nostra personalità: il nostro alter ego nel mondo digitale, inteso però più come angelo custode che veglia su di noi e ci aiuta a «essere-nel-mondo» che non come contenitore dove proiettare paure e istinti aggressivi. All’interno del mondo digitale, infatti, l’individuo oscilla tra l’essere e il poter essere, ovvero tra una realtà fisica e una virtuale.

I social network permettono di costruire il proprio sé digitale attraverso una maggiore libertà nella costruzione della propria identità liberandosi dei limiti e dei vincoli corporei. Attraverso la pubblicazione di foto, video, storie e commenti gli utenti  possono raccontarsi e narrarsi creando una personalità rispondente al contesto d’interazione in cui sono inseriti.

Da una stima fatta da White (2021) risulta che ogni anno vengono scattate circa 1,42 trilioni di immagini in gran parte frutto di selfie condivisi su Facebook, Instagram e WhatsApp e, quindi, detenuti, come sottolinea Riva (2016), da Mark Zuckerberg. Giustamente Amendola e Grillo (2021) si chiedono “In nome di cosa si è disposti a perdere terreno sul piano privato per sottoporci allo sguardo altrui?”  È evidente che la posta in gioco è alta, e ha a che fare con la definizione del sé. La sovraesposizione trova infatti la propria ragion d’essere in quanto strumento per rafforzare l’identità.  Quest’ultima, come messo in luce dal molti studiosi  tra cui Simmel (2013), si fonda sul riconoscimento.  

Il riconoscersi, la costruzione o la percezione dell’identità, l’appartenere sono da riferire “al luogo dell’altro” che altro non è che uno spazio simbolico determinato dalla cultura. A tal proposito, Bauman (2010)  parla di “comunità guardaroba”, una metafora relativa agli spettatori che si radunano al guardaroba del teatro dove tutti lasciano il soprabito. “Si tratta di comunità fantasma, illusorie […] quel genere di comunità cui ci si sente uniti semplicemente stando là dove stanno gli altri”. Cambiare di identità, come cambiarsi d’abito, secondo Bauman, “sta al sogno di rendere le incertezze meno scoraggianti e la felicità più profonda”. Nella vita virtuale, declinata sulle varie piattaforme social, si delinea un nuovo piacere, quello della finzione, l’essere altro allo scopo di ottenere una riconoscibilità, una reputation che segue la logica del personal branding. É evidente che la “cultura consumistica sia contrassegnata anche da una forte tensione a essere qualcun altro […] Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato come un dovere camuffato a privilegio” (Bauman, op.  cit).

Anche il corpo attraverso la pubblicazione di foto ed immagini è andato a integrarsi con la cultura del consumo. Codeluppi (2007) ha formulato il concetto di “corpo-packaging” per riferirsi ad un corpo che segue la tecnica di comunicazione del packaging e che mira ad attrarre l’attenzione su sé stesso rispetto a tutti gli altri soggetti esposti. Il corpo diventa, quindi,  il mezzo per definire una propria identità sociale. Le qualità personali vengono messe in secondo piano per soddisfare un Sè che si forma a seconda delle tendenze di mercato.  Sempre  Codeluppi parla di  “corpo-flusso“, cioè privo di un’identità fissa e  in continua evoluzione essendo strettamente legata ai cambiamenti delle tendenze.

Uno dei processi maggiormente riscontrabili sulle piattaforme social è la “vetrinizzazione dell’Io” (Pira, 2021) in cui il corpo viene esposto nelle bacheche o nei post così come qualsiasi altro abito nelle vetrine dei negozi.  Allo stesso modo il corpo inserito all’interno dei flussi comunicativi diventa merce di baratto e di mercificazione (Amendola e Grillo, op. cit.).

Inoltre,  come sostenuto da Mead (1972) l’Io proietta il proprio Sé in un insieme, un “altro generalizzato”, ossia in una “forma con cui la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri ed è quindi in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo”.  Colombo (2012) fa una importante precisazione  sostenendo  che i medium quali facebook, istagramm, twitter , linkedin  “svolgono una doppia funzione: esse sono infatti un luogo specifico (sia pure entro una diversa articolazione dello spazio reale/virtuale che nasce dal combinarsi dell’«ovunque» del web e dell’altro «ovunque» offerto dalla mobilità dei devices);  ma svolgono anche la funzione di interfacce, dotate di conoscenze e abilità specifiche, che forniscono strumenti ai vari utilizzatori suggerendo come (con quale forma grafica, in quali caratteri, con o senza immagini, con o senza parole) e cosa dire («Mi trovo qui»; «Sto pensando questo»; «Mi piace/non mi piace questa cosa»…). Si tratta di quella che molti studiosi francesi definiscono «construction éditoriale», e che è in pratica una retorica che l’utente utilizza, di cui da un lato si impadronisce, ma a cui dall’altro si attiene (si pensi ad alcune delle violazioni di Facebook, che potrebbero essere considerate negazioni del suo frame, e che sono punite con l’esclusione dal social network)”. 

Al di là, comunque, dei limiti legati ai medium , così come sostengono  Cunliffe e Coupland (2012), La narrazione e lo storytelling sono strumenti strettamente funzionali all’elaborazione delle informazioni nella cultura umana.  D’altronde Bruner (1992) che per primo ha parlato di narrazione e tecniche narrative, sostiene che “la vita stessa è narrazione in quanto storia” e , continua, affermando che “l’essere umano ha una “attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa” poiché sente il “bisogno di ricostruire la realtà dandogli un significato specifico a livello temporale o culturale”. Inoltre, la narrazione “è uno degli strumenti più preziosi a livello culturale, in quanto attraverso i racconti è possibile negoziare significati comuni e veicolarli fin dalla più tenera età e in modo piacevole. Questo aumenterebbe la coesione del gruppo e la reiterazione del sistema di valori e credenze”. 

Boyd ed  Ellison (2007), a proposito  di  società dell’informazione, in cui la narrazione si trova esposta ai cambiamenti indotti dalle evoluzioni tecnologiche che offrono una pluralità di strumenti comunicativi capaci di ampliare all’infinito la possibilità di narrarsi, di parlare di sé, di raccontarsi e di farsi riconoscere, sostengono che  nei  social come Facebook, Twitter o LinkedIn si può assistere alla costruzione di micro narrazioni quotidiane, nelle quali è lo stesso utente digitale che realizza uno specifico ritratto di sé: queste rappresentazioni si configurano come luoghi digitali deputati all’espressione dell’identità sociale e individuale.  

Shafak (2015), in un suo studio, riporta che vi è una vera e propria ossessione da parte degli utenti per postare immagini all’interno dei social. Ossessione che è necessaria ad alimentare il Sé digitale.  Rice e Yoshioka-Maxwell (2015) mettono in risalto che i social network non richiedono agli utenti digitali che i loro profili siano “coerenti e non frammentati, o che le storie debbano seguire un chiaro arco narrativo”, aspetto che potenzialmente limiterebbe la libertà narrativa di un utente di rappresentare se stesso all’interno della piattaforma. Al contrario, i social network consentono agli utenti digitali di raccontarsi attraverso la sperimentazione di ruoli e identità, scegliendo quali aspetti di sé comunicare e valorizzare. Nell’universo fluido dei social network il soggetto ha, quindi, l’opportunità di narrare la propria storia facendosi portatore di più immagini di Sé.

  Conclusioni

Dalla letteratura emerge che   l’avvento dei social media ha comportato la nascita di un nuovo Sé che appunto viene definito digitale. Il Sé digitale è stato concepito in termini dialogici ovvero come tante parti che dialogano tra di loro e in grado di rispondere alle sempre mutevoli condizioni alle quali il web sottopone gli individui. Sostanzialmente si tratta di un Sé in grado di adattarsi alla moltitudine di relazioni e connessioni con cui dobbiamo confrontarci nella quotidianità.

Sul piano culturale sembrerebbe una novità, ma già Pirandello, sul piano letterario,  aveva anticipato quanto stava per avvenire.  I personaggi pirandelliani interpretano in maniera superlativa la capacità dialogica del Sé cercando di adattarsi alle varie situazioni che la vita presenta.  Le varie maschere che i suoi personaggi indossano sono le identità che essi interpretano per potersi adattare alla comunità. Lupo (2021) scrive che “le maschere rappresentano la frantumazione dell’io in identità molteplici ed un adattamento dell’individuo sulla base del contesto e della situazione sociale in cui si trova. Pirandello faceva la distinzione tra l’essere e l’apparire di ciascun uomo. L’autore parlava di “recita del mondo”: l’umanità viveva in un perenne palcoscenico, costretta a comportarsi in un certo modo. Ciò comportava secondo Pirandello una schizofrenia tra l’essere e l’apparire”.   Internet e il web nel periodo pirandelliano era ancora da venire ma, con grande lungimiranza, il grande romanziere  in Uno, Nessuno e Centomila scrive “la realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo ed infinitamente mutabile”.  Il grande dramma che Pirandello esprime nei suoi scritti deriva dal trauma vissuto attraverso la malattia della moglie che si ammalò di schizofrenia e per tale motivo morì in manicomio sempre assistita dal marito: una realtà difficile da accettare e che andava in qualche modo ridefinita.  

Focault (1994), a tal proposito, riporta quanto scritto da Seneca nel De Ira “ci sono molte persone malate che accettano la medicina e altre che la rifiutano; l’uomo che nasconde le cose vergognose del suo animo, il suo desiderio, la sua sgradevolezza, la sua avarizia, la sua concupiscenza, ha poche possibilità di progredire. Parlare infatti del proprio male rivela la propria cattiveria; riconoscerla anziché provare piacere nel nasconderla è segno di progresso”.   La Mucci (2014) fa rilevare che di fronte al trauma l’identificazione proiettiva è uno dei meccanismi adottati nella  trasmissione  dello stesso   sul  piano  generazionale  che  serve  a  riparare  le conseguenti dissociazioni che inevitabilmente si porta appresso. La  narrazione,  con  l’utilizzo  dell’identificazione  proiettiva,  può  assolvere  alla funzione di razionalizzare le suddette dissociazioni. 

La  narrazione  di  eventi  traumatici,  inoltre,  serve  a  ristabilire  il  legame,  la connessione tra il sé e l’altro ovvero il substrato di cui si nutre la vita psichica. Gli autori attraverso il racconto riscrivono il copione (Byng-Hall, 1985) delle trame familiari e attraverso una trasposizione proiettiva utile a ricostruire il legame. La  Mucci  (op. cit),  a  tal proposito,  fa notare che “se il trauma è […]la rottura del fondamentale legame di fiducia  e  speranza  tra  sé  e  l’altro,  solo  nella  ricostruzione  di  quel  legame  si  può essere recuperati e riconnettersi con gli altri esseri e la vita”.

La narrazione, quindi, assume valore terapeutico attraverso la simbolizzazione di esperienze  traumatiche  che  nel  corso  del  tempo  hanno  comportato  vissuti  di paura ed ansia consentendo “di tenerle a mente, considerarle, metterle alla prova rispetto alla realtà in corso, collocarle in una prospettiva realistica e praticabile e integrarle  nella  personalità” (Frankel,  2011).

Sarebbe auspicabile nel futuro predisporre  piani di ricerca utili a comprendere come il Sé Digitale essendo effetto,  come ho scritto  nelle considerazioni,  della costruzione di storie attraverso i social media, con tecniche di tipo narrativo come lo storytelling,  possa essere la risposta ad un sé frammentato a seguito di eventi traumatici. Uno dei traumi collettivi che abbiamo vissuto fin dagli anni ’80 del secolo scorso con il neo positivismo e il post modernismo è la voglia del dis-fare per cui doveva essere distrutto quanto prodotto dalle generazioni precedenti. L’affermarsi, sul piano culturale, del post-modernismo sostenuto dal neo positivismo era teso ad abbattere, in nome di una presunta modernità, i miti, i simboli e i rituali del passato. Il processo di disgregazione della tradizione ferrea, permeata di rigidità e formalità, accelera e aumenta di intensità, come un aereo appena costruito che prende quota per raggiungere terre inesplorate, non sapendo se porterà i passeggeri a destinazione. E’ stata talmente forte questa voglia da far dire a Ihab Hassan  che “bisogna chiudere con il forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale”.  

Si può ipotizzare che la rottura del patto generazionale ha comportato una frammentazione del Sé poiché senza una storia vengono meno due dei processi fondamentali ai fini della costruzione del Sé come il riconoscersi e l’appartenere: se non mi riconosco e non appartengo  devo inventare l’esistenza. I social media per le modalità con cui sono costruiti rispondono a questa esigenza primaria dell’uomo. Il Sé digitale è la conseguenza evidente. Infatti, per Foucault (op. cit.) l’Occidente trova nelle tecnologie del sé una costante nella costruzione del soggetto.

__________________________________________

Bibliografia

Africa Meo, M., (2021), Per un’analisi del Sé digitale tra società dell’informazione e società iperconnessa, Tesi di Laurea, Politecnico di Milano

Amendola, A., Grillo, M., (2021), Immagini e riproducibilità del sé nella digital society: pratiche e strumenti per la costruzione dell’identità, Echo 3, 2021

Bauman Z. 2010, Consumo dunque sono,Laterza, Roma-Bari.

Bruner, J. S., (1992), La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino

Byng-Hall, J. (1985). The family script: A useful bridge between theory and practice.Journal of Family Therapy, 7(3), 301–305

Carr, N., (2011), Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaelo Cortina Editore

Codeluppi V. 2015, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano

 Codeluppi,  V., (2007), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino.

Colombo,  F., (2012) Controllo, Identità, Parresia:  Un approccio foucaultiano al web 2.0, «Comunicazioni sociali», 2012, n. 2, 197-212 © 2012 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Milano

Cunliffe, C. Coupland, “From hero to villain to hero: Making experience sensible through embodied narrative sensemaking”, Human Relations, Vol. 65(1), 2012, pp. 63–88.

Boyd, N. Ellison, “Social network sites: Definition, history, and scholarship”, Journal of Computer-Mediated Communication, Vol. 13(1), October 2007, pp. 210-230.

Rice, A. Yoshioka-Maxwell, “Social Network Analysis as a Toolkit for the Science of Social Work”, Journal of the Society for Social Work and Research, Vol. 6, 2015, p. 371.

Focoualt, M., (2009), Le courage de la verité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France 1983-1984, Seuil/Gallimard, Paris; tr. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France 1983-1984, Feltrinelli, Milano 2011.

Frankel, J., (2011).Ferenczi’s concepts of identification with the ag-gressor and play as foundational processesin the analytic relationship. In Druck, A.B., Ellman C. S., Freedman, N., Thaler,  A. (EDS), A New Freudian Synthesis. Clinical Process in the Next Generation, Taylor Francis, London,pp 173 -200

Mead, (1972), The Works of George Herbert Mead: Mind, self and society from the stand point of a social behaviorist, Chicago, University of Chicago Press, 1972, p. 216.

Harré, R. , Langenhove, L. V.,  (1991). Varieties of Positioning. Journal for the Theory of Social Behaviour 21 (4):393-407

Hermans, H. J. M. (1992). Telling and retelling one’s self-narrative: A contextual approach to life-span development. Human Development, 35, 361—375.

Hermans, H. J. M. (1996). Voicing the self: From information processing to dialogic interchange. Psychological Bulletin, 119, 31-50

Hermans, H. J. M., & Hermans-Jansen, E. (1995). Self-narratives: The construction of meaning in psychotherapy. New York: Guilford Press.

Hermans, H. J. M., Kempen, H. J. G., & Van Loon, R. J. P. (1992). The dialogical self: Beyond individualism and rationalism. American Psychologist, 47, 23—33.

Hevern, V.W. (2000). Alterity and Self-presentation on the Web. Paper presented at the First International Conference on the Dialogical Self, Nijmegen, The Netherlands

Jervis, G. (1989), Significato e malintesi del concetto di “sé”, in Ammaniti, M. (a cura di) La nascita del sé, Laterza, Bari, pp. 15-52.

Ligorio, M.B., Hermans, H.J.M. (2005). Identità dialogiche nell’era digitale. Trento: Erickson.

Ligorio, M.B., Pugliese, A.C. (2004). Self-positioning in a text-based environment. Identity: An International Journal of Theory and Research, 4 (4), 337- 353.

Ligorio, M.B., Pugliese, A.C., Spadaro, P. (2004). Identities and Communities: Searching for Entanglements and Overlaps in a Web-forum Environment. Paper presentato alla III Conferenza Internazionale sul Sè Dialogico, Varsavia, Polonia

McKenna, K. Y. A., & Bargh, J. A. (2000). Plan 9 from cyberspace: The implications of the Internet for personality and social psychology. Personality and Social Psychology Review, 4, 57-75

Mead, G. R., (1972), Mente, Sé e Società”, Giunti Barbera, Firenze

Mucci, C. (2014).Trauma, healing and the reconstruction of truth, The American Journal of Psychoanalysis, 74, (31–47)

Pira, F., (2021), Figli delle app. Le nuove generazioni digital-popolari e social-dipendenti, Franco Angeli, Milano

Renati,  R. , Zanetti , M. A., Cavioni,  V., Aloisio, V., (2011), Identità digitale e narrazione di sé nell’era del web, QWERTY 7, 1 (2011) 19-36

Riva G. 2016, Selfie. Narcisismo e identità, Il Mulino, Bologna.

Rosenberg, S. (1997). Multiplicity of selves. In R. D. Ashmore, & L. Jussim (Eds.), Self and identity: Fundamental issues (pp. 23-45). New York: Oxford University Press.

Shafak, E., (2015) “Storytelling, Fake Worlds, and the Internet”, World Literature Today, 89, 2015, pp. 39-41.

Simmel. G. 2013, La Metropoli e la vita dello Spirito, Arnaldo Editore, Roma. Rice,  E., Yoshioka-Maxwell

Talamo, A., Ligorio, M.B., Zucchermaglio C. (2004). Identità negoziate, identità costruite in ambienti virtuali. Rassegna di Psicologia, 21 (1), 147-177

Toselli, M., Molina, M., (1995), Il Bambino davanti allo specchio: L’interazione e la costruzione del sé, atque n. 11, maggio 1995

Turkle S. 2019, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Einaudi, Torino.

Turkle, S. (1995). Life on the screen: Identity in the age of the Internet. New York: Touchstone.

Turkle, S. (1997). Constructions and reconstructions of self in virtual reality: Playing in the MUDs. In S. Kiesler (Ed.), Culture of the Internet (pp. 143-155). Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum

White R., Rosie Marks è la Vivian Maier della iPhone generation, i-D 21 gennaio 2021 https://id.vice.com/it/article/y3gxgw/rosie-marks-libro-fotografico

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia