La solitudine ai tempi dei social media

cura della Dott.ssa Nicoletta Caruso, Psicologa Clinica, Pronto Soccorso Psicologico Italia

Abstract

Today, more than half of the world’s population is online.
The data emerging from the Digital 2023 report (Starri, 2023) tells us that approximately 5.44 billion people use mobile phones, which is 68% of the world’s population. Unique mobile users increased just over 3% last year, with 168 million new users in the last 12 months.
There are 5.16 billion internet users; of these, 4.76 billion use social media worldwide.
Research (Baiocco, Laghi, Carotenuto, Del Miglio, 2011) has shown that the motivations underlying online communication are relational; however, almost 1 in 4 adults feels alone (Maese, 2023), and the most sobering data concerns the age group involved: young adults between 19 and 29 years old.
This work aims to reflect on social media’s influence on one of the most complex psychological dimensions of the human being: loneliness.

Riassunto

Oggi, più della metà della popolazione mondiale, è online. I dati emersi dal report Digital 2023 (Starri, 2023), ci dicono che circa 5,44 miliardi di persone usano telefoni cellulari, pari al 68% della popolazione mondiale; gli utenti unici di dispositivi mobili sono aumentati di poco più del 3% lo scorso anno, con 168 milioni di nuovi utenti negli ultimi 12 mesi. Ci sono 5,16 miliardi utenti di Internet e, di questi, 4,76 miliardi utilizzano i social media in tutto il mondo. Le ricerche (Baiocco, Laghi, Carotenuto, Del Miglio, 2011), hanno dimostrato che le motivazioni alla base della comunicazione online sono di tipo relazionale; tuttavia quasi 1 adulto su 4 si sente solo (Maese, 2023) e il dato che più fa riflettere riguarda la fascia d’età interessata: giovani adulti tra i 19 e i 29 anni. Questo lavoro vuole rappresentare una riflessione sull’influenza che hanno i social media su una delle dimensioni psicologiche più complesse dell’essere umano: la solitudine.

social media e solitudine

Introduzione

Quella in cui viviamo è una società “ultra – tecnologica”, nella quale la tecnologia – a tutti i livelli – è diventata lo strumento sulla quale poggia e fluisce la maggior parte della vita quotidiana. Siamo costantemente connessi, al punto che, mondo reale e mondo virtuale si fondono, quasi a diventare un tutt’uno. Ed in questo tutt’uno, dove si perdono i confini tra ciò che è vero e ciò che non lo è, si fondono e si confondono relazioni, emozioni e dinamiche psicologiche complesse. “È innegabile, internet e in particolare i social media hanno cambiato la nostra vita, permettendoci una connessione senza precedenti. Nella cosiddetta more-personal computer era, internet è ovunque e la sempre più veloce e semplice creazione di media fa sì che viviamo e condividiamo sui social contemporaneamente. Internet e i social ci permettono di rimanere costantemente in contatto con i nostri amici, di conoscere nuove persone, che magari si trovano dall’altra parte del mondo, di essere aggiornati su tutto quello che succede e facilitano il nostro approccio con gli altri, rendendoci più disinvolti. Sono strumenti potentissimi, sì, ma non ancora potenti quanto uno sguardo, un gesto o un contatto autentico. Inoltre, spesso i social ci offrono una visione distorta della realtà, perfezionata potremmo dire” (dal web, 2019).

A tal proposito, i social ci permettono anche di presentarci come vogliamo, di modificare ciò che di noi non ci piace e di “mostrare” la parte migliore delle nostre vite, e questo alimenta la paura di presentarci al mondo in modo autentico, con le nostre fragilità ed imperfezioni. “Secondo la psicologa Kimberly Young (2010), nonostante internet sembri un antidoto contro i disagi del nostro tempo, in realtà può esasperare i problemi piuttosto che risolverli. Nella nostra società assistiamo al disfacimento della famiglia e della comunità: isolamento, paura e cinismo sono i nuovi mali, verso cui la comunità di internet sembra illusoriamente porre rimedio, diventando panacea per ogni difficoltà della vita” (Galgani, 2014). “Un giocatore anonimo di un MUD (gioco di ruolo eseguito su internet contemporaneamente da più utenti), scrisse, tanti anni fa, riferendosi alla vita virtuale: <Puoi essere chiunque tu voglia essere. Se vuoi, puoi ridefinire completamente te stesso. Puoi anche cambiare sesso>”(Turkle, 1997).

Per quanto questa affermazione renda attraenti i contesti virtuali, resta da chiedersi se “tale attrattiva non sia altro che l’espressione di un disagio esistenziale ed interpersonale nel mondo reale” (Galgani, 20214). Si va evidenziando, da parte dei nativi digitali, un sempre maggiore disagio nei contesti reali di relazioni face to face, prediligendo, invece, i contesti virtuali. E, sebbene il fenomeno interessi maggiormente i giovani, anche gli adulti ne restano coinvolti (TheBiz Loft, 2013). I giovani preferiscono “messaggiare piuttosto che parlare: le persone si stanno abituando ad accontentarsi sempre di meno nelle relazioni interpersonali, preferendo brevi scambi a conversazioni vere e proprie, e sono sempre più intenzionate a fare meno degli altri” (Turkle, 2012). “La fobia della solitudine ci fa accontentare di pseudo-amori, pseudo-conoscenze, pseudo-esperienze” (Lo Iacono, 2003). “Al crescere della fiducia nella tecnologia, diminuisce la fiducia in noi stessi e negli altri, al punto che siamo via via sempre più isolati e soli, fino ad arrivare all’estremo di sostituire la compagnia degli esseri umani con quella di robot socievoli” (Turkle, 2012).

“E più si accumulano amici su facebook o follower su Instagram, più ci si espone al rischio di sentirsi davvero soli” (Cohen, 2013). Perché la solitudine “In linea generale l’essere umano ama la compagnia, aggregarsi e condividere esperienze, progetti, cibo, oggetti, risate così come apprezza il fatto di ritrovarsi a volte solo con se stesso a riflettere, dialogare con il proprio io più profondo, meditare. In alcuni casi o momenti però, restare soli o il timore di esserlo può creare la paura della solitudine, una emozione che può avere effetti negativi sulla vita di chi ne soffre” (Perilli, 2021). “La solitudine è una condizione che può nascere dalla mancanza di significativi rapporti interpersonali o dalla discrepanza tra le relazioni umane che un soggetto desidera avere e quelle che effettivamente ha, le quali possono essere insoddisfacenti per la loro natura, per il loro numero, o per l’incapacità della persona a stabilire e mantenere rapporti positivi e significativi con gli altri “ (Galimberti, 2009).

Secondo la psicologa Marie Hartwell – Walker (2011), le possibili cause alla base della solitudine andrebbero ricercate nella fobia sociale, nella depressione, nel ripetersi di esperienze a cui è stato attribuito un valore soggettivo molto negativo, in un temperamento particolarmente sensibile, nella mancanza di abilità sociali e in aspettative non realistiche. A ciò, va ad aggiungersi anche il contesto culturale in cui la persona è inserita, oltre alle caratteristiche genetiche.

Diversi studi hanno dimostrato un collegamento tra l’uso di internet e la solitudine. Ad esempio, Shaw e Gant (2002) hanno scoperto che un maggiore uso di internet è associato ad una diminuzione della solitudine, mentre, al contrario Engelberg e Sjoberg (2004) hanno trovato che un uso frequente di internet è associato ad una maggiore solitudine, a un peggior adattamento sociale e a minori competenze emotive.

Un’altra ricerca condotta dall’Università della Pennsylvania e guidata dalla psicologa Melissa G. Hunt (2018) suggerisce che ci sarebbe un legame tra la quantità di tempo trascorso sui social media e l’aumento di fenomeni come ansia, depressione e solitudine. Emerge cioè che utilizzando meno del solito queste piattaforme si ha una rilevante diminuzione di questi fenomeni. Uno dei soggetti coinvolti nello studio afferma infatti che “Non comparare più la mia vita a quella degli altri ha avuto un impatto più forte di quello che mi aspettavo e mi sono sentito molto meglio e più positivo riguardo a me stesso durante queste settimane. Ora sento che i social sono meno importanti e li valuto meno rispetto a prima.”

Risultati contrastanti che, tuttavia, suggeriscono quanto sia “personale” il rapporto che ognuno di noi ha con l’utilizzo dei social media. Tante visioni, quindi, che però confluiscono tutte in un’unica domanda: Quanto ha influito la tecnologia sul nostro senso di solitudine? E’ innegabile che i social abbiano facilitato la comunicazione, forse anche troppo, ma quanto dialogo c’è in queste comunicazioni?

“Usando Facebook o Twitter mi metto in una cassa di risonanza dove mi aspetto che tutti mi diano ragione. È una sorta di stanza degli specchi in cui non ci si confronta, non ci si espone realmente al dialogo che, invece, presuppone che io voglia espormi a qualcuno che la pensa in modo diverso, correndo anche il rischio di avere torto. Le tecnologie, sempre più potenti e pervasive, ci promettono una connessione perenne, ma allo stesso tempo non ci permettono di prestare attenzione agli altri. Ci estraniamo dalla realtà e ci tuffiamo nei nostri dispositivi, isolandoci.

In sostanza, sostiene Turkle, abbiamo sviluppato un nuovo modo di essere soli, insieme, perché vogliamo stare con gli altri ma anche essere altrove. La tecnologia ci mette in ‘pausa’. Le nostre conversazioni faccia-a-faccia sono continuamente interrotte da chiamate e messaggi sms. Nel mondo della corrispondenza cartacea, era assolutamente inaccettabile che un collega si mettesse a leggere una lettera personale durante una riunione. Nel nuovo mondo digitale, ignorare chi ci sta di fronte per rispondere a una chiamata al cellulare o rispondere a un sms è diventata la norma.

Vogliamo avere il controllo delle situazioni e le tecnologie sembrano prometterci questo potere. Tendiamo sempre più a fuggire dalle relazioni dirette e a preferire le comunicazioni mediate. La conversazione faccia a faccia è in tempo reale e non è possibile controllare ciò che verrà detto. Secondo Turkle, infatti, le relazioni umane sono complesse, impegnative, spesso difficili da gestire e proprio per questo tendiamo a “ripulirle” con la tecnologia e facendolo sacrifichiamo la conversazione a favore della pura connessione.” (dal web, 2019).

Secondo Turkle (2012), ci rivolgiamo alla tecnologia perché ci aiuti a sentirci connessi in modi che possiamo agevolmente controllare, in modo da non dover mai essere soli, perché la possibile solitudine è percepita come un problema che va risolto. La connessione costante, però è più un sintomo che una cura perché “nel momento in cui le persone sono sole, anche solo per qualche secondo, diventano ansiose, irrequiete, si fanno prendere dal panico e vanno in cerca di un dispositivo”. Sta prendendo forma un nuovo modo di essere: condivido quindi sono: “usiamo la tecnologia per definire noi stessi condividendo i nostri pensieri e le nostre sensazioni proprio nel momento in cui le stiamo provando” (Turkle, 2012).

“È necessario, invece, allenarsi alle difficoltà e alla ricchezza della conversazione perché saper conversare risulta essere fondamentale per creare dei legami significativi con gli altri e per comprendere noi stessi e il mondo che ci circonda. Dobbiamo, quindi, riservare del tempo per la conversazione, per ascoltarci l’un l’altro.

I brevi scambi instaurati attraverso le tecnologie ci abituano a fare a meno degli altri. Abbiamo l’impressione che, nella vita quotidiana, nessuno ci stia ascoltando e questa sensazione è cruciale, secondo Turkle, nel rapporto che instauriamo con le tecnologie, che invece ci fanno credere che tante persone ci ascoltino e perciò preferiamo trascorrere la maggior parte del tempo con macchine che sembrano interessarsi a noi. Abbiamo quasi perso la fiducia nella possibilità di esserci l’uno per l’altro, aspettandoci sempre più dalla tecnologia e meno dagli altri. Progettiamo tecnologie, dai social ai robot socievoli, che ci danno l’illusione di una compagnia e che ci rassicurano riguardo al fatto che non saremo mai soli.

Essere soli viene percepito come un problema e cerchiamo di risolverlo con la connessione e nel farlo contribuiamo a costruire il nostro isolamento. Dovremmo, invece, pensare alla solitudine in modo positivo, darle spazio perché, come sostiene Sherry Turkle, essa è una condizione essenziale per l’auto-riflessione, per ritrovare noi stessi e per apprezzare davvero gli altri. Quando non siamo capaci di restare soli, infatti, ci rivolgiamo agli altri per stare meglio e riempire i momenti vuoti. È necessario, invece, instaurare delle relazioni più consapevoli: con la tecnologia, con gli altri e con noi stessi” (dal web, 2019).

Come affrontare la solitudine?

Per utilizzare le parole dello psicologo Marchesi (2021), la solitudine andrebbe ascoltata piuttosto che affrontata. “Voi penserete sicuramente a una follia di scrittura, invece vi invito a riflettere insieme. Partiamo dal concetto che la vera e propria solitudine, di per sé, non esiste. Ci sarà sempre qualcuno accanto a noi oppure qualcuno a cui potremo appoggiarci. Forse non sarà colui o colei che vogliamo, forse non risponderà ai nostri sogni e desideri, ma non saremo mai realmente soli fino a che noi stessi non lo vorremo davvero. Partendo dunque da questo punto di vista: se la solitudine dipende da noi e da nostri movimenti e comportamenti, perché abbiamo voluto prendere questa strada e questa scelta? Quali sono stati i nostri comportamenti che hanno portato a isolarci senza volere più accudire, essere accuditi, appartenere e condividere. Perché abbiamo noi rifiutato gli altri proteggendoci dentro il bozzolo del non confronto. Capire quali sono le paure, i dolori e ciò che abbiamo vissuto ci permette di ascoltare la parte più fragile e bisognosa di noi. In questo senso non è la solitudine a dovere essere affrontata, ma la nostra volontà, che ha e avrà sicuramente le sue ragioni, nel proteggersi dagli altri.(Marchesi, 2021).

Bibliografia

Dott.ssa Nicoletta Caruso

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