Violenza contro le donne: modelli che si ripetono

cura della Dott.ssa Nicoletta Caruso, Psicologa Clinica, Pronto Soccorso Psicologico Italia

Abstract

Over time, several studies have been conducted regarding the use of stereotypical images of the female body by the media for purely commercial purposes. This commodification would lead to a distorted vision of the feminine, reduced solely to the body or, more specifically, to bodies raped, decomposed, tortured, abused, devoid of empowerment and subjectivity” (Cretella, 2013). The objective of this work will be to analyze the persistence of the iconographic imagery relating to gender violence – over several centuries – by relating the major arts (painting and sculpture) to the social imagery proposed by the media.

Riassunto

Nel corso del tempo, sono stati condotti diversi studi rispetto all’uso di immagini stereotipiche del corpo femminile utilizzato dai media a scopo meramente commerciale. Tale mercificazione porterebbe ad una visione distorta del femminile, ridotto unicamente al corpo o più in particolare, a corpi violentati, scomposti, torturati, abusati, privi di empowerment e di soggettività” (Cretella, 2013). L’obiettivo di questo lavoro sarà quello di analizzare la persistenza dell’immaginario iconografico relativo alla violenza di genere – nell’arco di diversi secoli – ponendo in relazione le arti maggiori (pittura e scultura) con l’immaginario sociale proposto dai media.

violenza contro le donne

Introduzione

La violenza sulle donne: protagonista indiscussa da secoli – e ancor più di questi giorni – invade la nostra quotidianità attraverso i telegiornali e i media che ce la raccontano nei modi più disparati e “oggettivi” possibili, quasi a ricordarci quanto sia “creativa” la mente umana nella produzione e messa in atto di comportamenti violenti non solo sulle donne ma su qualsiasi essere vivente considerato “debole” o “di proprietà”.

Ed in effetti, la violenza ci viene raccontata, fotografata o videoripresa nei casi limite: i social media sono pieni di video reali che mostrano “come si fa violenza”, al punto da “sentirla sulla pelle” come se fossimo noi stessi a subirla o, addirittura ad agirla.

Nel corso del tempo, le diverse istituzioni si sono mobilitate nella direzione della denuncia della violenza a vari livelli, così come i media, la pubblicità e tutti gli strumenti di informazione di massa che, ogni giorno, ci ricordano quanto sia riprovevole questo comportamento.

A tal proposito, un contributo importante è da ricercare nell’arte e nella sua riflessione, che ci ha permesso di guardare la violenza attraverso le narrazioni tipiche della sua rappresentazione: valido strumento non solo di denuncia ma anche di

interpretazione e, perchè no, di confronto con i media attuali che hanno letteralmente invaso le nostre vite. La questione sulla quale vorrei porre l’attenzione riguarda, sostanzialmente, una riflessione sulla continuità culturale di un modello iconografico – rimasto inalterato per secoli – che vede la violenza contro le donne come un fatto normale che si è imparato ad accettare come quotidiano, con la sua conseguente legittimazione.

Ciò che ci si chiede è quanto questo modello si insinui nella costruzione dell’identità delle minori e delle donne adulte dato il ruolo, ancora svalutato, ignorato, offeso e abusato delle donne nella società occidentale. E, a tal proposito, risulta interessante un excursus storico sull’eventuale evoluzione della questione, avendo come focus l’arte e la letteratura.

Il corpo che cambia

Quando si parla di violenza, si pensa inevitabilmente al corpo: immagine che, dal Novecento in poi, è stata trasformata in movimento grazie soprattutto all’avvento delle avanguardie, della pittura astratta e poi dei media che hanno donato consistenza, dinamicità e spazio a qualcosa che, fino ad allora, era stato solo statico silenzio. “Ricordiamo a tal proposito, la querelle rinascimentale sulla supremazia tra le varie arti, in cui lo specchio troverà la sua implicazione più ampia. Gli scultori sostenevano la manchevolezza della pittura in quanto priva della terza dimensione, i pittori supplivano a tale deficienza con lo specchio raffigurato nel quadro, capace di rifrangere anche il verso non esposto agli occhi dell’osservatore. A tale uso dello specchio si aggiungevano, poi, significati metaforici che si ritrovano anche nell’arte cinematografica: ad esempio, alcune studiose del campo dei gender studies come Rosi Braidotti, hanno analizzato l’immagine dei mostri presenti in molto cinema di fantascienza come altrettante metafore di organi sessuali femminili che rappresenterebbero la paura di castrazione dell’universo fallocentrico maschile. Una fantascienza contemporanea dove gli esseri mostruosi o alieni sono analogie della vagina, dell’oscuro indistinto segreto della riproduzione che, attraverso questa demonizzazione, l’uomo cerca di sottrarre al femminile, mediante l’uso di tecniche sempre più invasive e mortificatorie del corpo. L’idea della Braidotti è, per l’appunto, che mostri come Alien rappresentino quella dimensione umida, appiccicosa, informe e sconosciuta che genererebbe ciò che Freud ha chiamato “perturbante”. Per Freud il perturbante è qualcosa di familiare che si nasconde in casa (Freud, 1977), esso causa gravi turbamenti se disvelato, provoca cioè angoscia di morte. Per Freud il perturbante risiede proprio nel continente oscuro della sessualità della donna ed è collegato con l’organo genitale femminile”. (Cretella, 2013).

E infatti, sono molte le narrazioni che hanno associato l’immagine femminile alla morte: pensiamo a Pandora “autrice di tutti i mali del mondo, a Eva con il peccato originale, o all’incontro tra la Belle dame sans merci (Keats, 1819), che appare al giovane Keats nelle vesti di angelo della morte, oppure alle apparizioni diaboliche della vampira, la prima è Carmilla – Sheridan Le Fanu, 1872 – cui seguono molti calchi -” (Cretella, 2013).

Ciò che emerge è la volontà di rappresentare il corpo della donna nei modi più disparati, frammentato, diviso in parti e riassemblato per mano medica, psichiatrica, artistica, letteraria, e che subisce le metamorfosi più strane.

Nel Novecento, invece, la “società dello spettacolo ingloba l’immagine femminile sfruttandola a scopo preminentemente riproduttivo dell’acquisto dell’oggetto-merce con conseguente riduzione della riproduzione naturale della maternità, quasi assente dal mondo dell’estetica pubblicitaria”. (Cretella, 2013).

In tempi più recenti, si pensi al simbolismo che racchiude il corpo diviso: <<la prima e più comune forma di deumanizzazione in pubblicità è la mutilazione simbolica: normalmente si recide solo la testa della donna, al massimo facendo salva la parte inferiore del volto. Ciò che manca sempre sono gli occhi, magari perché la faccia è coperta o la modella inquadrata di spalle: un espediente coerente anche con quell’economia della visione che assegna al maschile il potere dello sguardo e colloca il femminile nel ruolo di oggetto, impossibilitato a restituirlo>> (Giomi e Magaraggia, 2017)

Violenza e miti

In questa riflessione sulla violenza di genere, non poteva mancare un riferimento alla mitologia che, come l’arte e la letteratura, possono aiutare a comprendere meglio “come la violenza di genere e il patriarcato siano fenomeni che arrivano da lontano, anzi da molto lontano; dagli albori della storia, ma anche dal mondo greco e romano, come dimostrano, tra l’altro, i più importanti miti classici, fondati molto spesso su storie di violenza e prevaricazione maschile sul genere femminile.

Molti di questi miti sono stati rappresentati da grandi artisti in tutte le epoche, con scene che evocano violenza o rapporti sessuali che nulla hanno di sentimentale, in quanto essenzialmente di natura predatoria” (Piccardo, 2022).

“La gran parte dei miti greci sembra concentrarsi sulla discendenza nata, e di rado prendono in considerazione la conseguenza della violenza sulla donna che ne è vittima, mentre il mito romano tende a raccontare, con maggiore realismo, gli avvenimenti successivi; con riferimento, ad esempio, alle lotte tra Romani e Sabini, questi ultimi li combatterono per riavere fisicamente, in senso proprio, le loro donne, ma la battaglia decisiva fu fermata dalle stesse donne rapite, che intervennero pregando di non versare il sangue dei parenti dei propri figli. In altri casi, si trattava di matrimonio per rapimento, un costume praticato ancora oggi da alcune culture, in diverse parti del mondo” (Piccardo, 2022).

Ricordiamo, a tal proposito il “Ratto delle Sabine” dove “il coraggio delle donne va ben oltre: sacrificando se stesse, mettono fine alla battaglia, per evitare che i propri uomini e i propri figli soccombano per mano dei nemici.Per ringraziarle del loro sacrificio, Romolo concede alle sabine rapite dei privilegi. Così ci narra la vicenda Plutarco: << Le donne dunque erano oggetto di molte altre forme di rispetto […]: si cedeva loro il passo quando si camminavano per la via; nessuno poteva dire in presenza di una donna nulla di sconveniente, nè mostrarsi nudo, altrimenti subiva un procedimento penale nei tribunali competenti per gli omicidi […]. Si è poi mantenuto fino ad oggi l’uso che la sposa non varchi da sé la soglia della camera, ma la si porti dentro sollevandola, perché anche allora le Sabine furono portate con la forza, e non entrarono spontaneamente>>” (Cretella, 2013). E qui “siamo di fronte alla cifra fondante che narra, nell’unione tra uomo e donna, il privilegio della forza e dello stupro” (Cretella, 2013).

“Nel mito greco e romano lo stupro ed il rapimento erano costanti piuttosto comuni e frequenti. Il secondo serviva a facilitare il primo, dove la violenza sessuale era, per gli assalitori, un mezzo non solo di piacere, per il capriccio di essersi invaghiti della vittima, bensì un tramite attraverso il quale garantire una stirpe di origine, per metà, divina. Lo stupro, perché di questo solo si trattava, veniva elevato ad un’unione divina tra una mortale ed un dio, così che la violenza venisse trattata come un fatto sacro. Centro di queste violenze, nel mito, il dio, colui che seduce, ma che appare senza colpa, e senza remora alcuna sparisce dopo aver soddisfatto i suoi più bassi istinti. Ma la donna? La fanciulla violata, privata della sua verginità, che fine fa? E la sua voce? Gli insaziabili ardori di Zeus, descritti in diversi miti, generavano sempre una prole, basti pensare ad Artemide, nata dallo stupro che Latona subì da Zeus. Una volta che gli appetiti del padre dell’Olimpo sono stati saziati, egli abbandona la giovane Europa, assieme ai tre figli, in una terra straniera, influenzando, probabilmente, la scelta di Asterio, per garantire alla sua prole discendenza divina e regale.

Zeus rappresenta perfettamente quello che lo psicanalista Luigi Zoja chiama la filosofia dello stupro, cioè una forma mentis andatasi a creare nel passaggio dalla Dea Madre al pantheon maschile. Basta pensare che nei frammenti orfici Zeus era descritto come lo stupratore sia della madre che della sua stessa sorella. Con un simile padre, il pantheon olimpico non può che sentirsi legittimato nell’usare la violenza sessuale, per ottenere e possedere ciò, o per meglio dire chi si desidera. Zeus plasmando una nuvola creò Nefele, la quale, mutando le sue sembianze si unì con Issione, re dei Lapiti, e da questo rapporto nacque Centauro, un nipote, ad honorem, degno del nonno Zeus, di medesima stirpe per quanto riguardava la violenza sulle donne” (Piccardo, 2022). “La cultura della prevaricazione di genere, dunque, è parte integrante della società occidentale da millenni, e forse per questo, ancora oggi, nonostante i grandi passi in avanti compiuti, stenta a scomparire del tutto” (Piccardo, 2022).

In ambito italiano, una narrazione molto interessante è quella di Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino che viene violentata dal figlio di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. “Secondo la versione di Tito Livio, durante l’assedio della città di Ardea, i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo, tornando di nascosto a Roma, si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro assenza. Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà. Così portò con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a visitarla nel pieno della notte: poterono constatare che Lucrezia stava tessendo la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertivano in banchetti e orge.

Tito Livio racconta che Sesto Tarquinio, invitato a cena da Collatino, conobbe la nobildonna, se ne invaghì per la bellezza e la provata castità, e fu preso dal desiderio di averla a tutti i costi. Qualche giorno più tardi, Sesto Tarquinio, all’insaputa di Collatino, andò a Collatia da Lucrezia che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accolse in modo ospitale. Terminata la cena, andò a coricarsi nella stanza degli ospiti. Nel pieno della notte si recò nella stanza di Lucrezia con la spada e la immobilizzò e la violentò. Mentre Sesto la violentava, alternando suppliche a minacce, la povera donna, colta da terrore, capì che rischiava la morte. Vedendo che Lucrezia era irremovibile, Sesto minacciò di ucciderla e di disonorarla: avrebbe infatti sgozzato un servo e glielo avrebbe accostato nudo accanto, facendo credere che avesse avuto un rapporto adulterino vergognoso. Lucrezia cedette e Sesto ripartì soddisfatto.” (Wikipedia – Lucrezia Romana). “L’incipit dello stupro nasce dunque da una gara di maschilità e da una competizione tra uomini sul possesso esclusivo delle donne, e come tale viene declinato anche dopo: in effetti Lucrezia chiede al padre e al marito di dimostrare di esser “veri uomini” proprio vendicandola, ribadendo dunque che queste cose rimangono affari da uomini. Lo stupro di Lucrezia non è un dramma personale ma ribadisce che il corpo della donna è la metafora della proprietà privata (maschile) e invaderlo significa rompere un patto sociale: da qui dunque si intende come esso divenga il simbolo di tutta una nazione […]. Lucrezia è un oggetto tra gli altri, rotto e dunque non più usabile. La storia ci racconta che Tarquinio, dopo averla minacciata di morte, le dice che se non acconsentirà al rapporto non solo la ucciderà, ma metterà a fianco del suo corpo morto il cadavere di uno schiavo di colore, in modo da fare intendere a chi scoprirà i corpi la lascivia della donna. Lo sgomento di Lucrezia è per l’appunto questo: lei cede, perdendo l’onore, per uccidersi dopo al solo fine di spiegare la sua verità. L’idea che, non cedendo alle imposizioni, la messinscena prospettatale da Tarquinio infanghi il suo nome dopo morta, la atterrisce. Ricordiamo infatti che, mentre agli uomini romani era concesso avere come riserva sessuale gli schiavi, alle donne questa libertà non era data. Inoltre, era considerato il massimo del disonore che le mogli avessero rapporti con gli schiavi, oltre che con uomini liberi” (Cretella, 2013). “Il passaggio alla res publica è indicato dunque nel sacrificio del corpo femminile, che s’immola per il perduto onore. Onore perduto ma, onore di chi? E’ chiaro che la parola onore è ambigua e strettamente sessuata: se l’onore di un uomo si vendica sempre col sangue dell’altro, l’onore di una donna sta solo nel perseverare la sua verginità […]. Il gesto di Lucrezia è dunque, nel quadro della storia antica, un gesto di forza, rispetto alla tradizionale sottomissione femminile, e per questo diviene sinonimo di un’iconografia della vittima che ha riscosso molto successo fino al Seicento […]. Ma cosa vuole insegnare questa storia? “A una donna che ha subito violenza non resta che il suicidio”, questa è la morale dimostrata dal gesto di Lucrezia, esemplificata nel mito di un’aggressività femminile tutta rivolta verso se stessa.” (Cretella, 2013).

Il fatto che il suicidio sia una delle reazioni più comuni delle donne che hanno subito violenza – anche a molti anni di distanza -, non deve stupire ma qui si tratta di un doloroso percorso di depressione che non può essere cancellato. Quella descritta finora è solo una minima parte della letteratura che utilizza la violenza come strumento legittimo, a volte reattivo, altre riparatore. Non resta adesso che spostare l’attenzione sulla società attuale ed, in particolare sulla pubblicità, sui media e sui messaggi veicolati da questi importanti strumenti di informazione di massa.

Pubblicità e violenza di genere

Sappiamo che «le pubblicità inducono simbolicamente l’identificazione tra la persona ed il loro contenuto o parte di esso, spesso sfruttandone l’emotività, l’affettività, le paure, la sessualità» (Corradi, 2017).

“Il linguaggio pubblicitario viene capito da tutti proprio per la sua semplicità e la sua potenza evocativa, anche quando parla a target particolari. Nella sua naturalità può però far leva su aspettative culturalmente avallate (Per l’uomo che non deve chiedere mai! è stato per lungo tempo il machista claim del dopobarba Denim), ma anche proporre nuovi orizzonti di senso (Think different è invece l’evocativo claim di Apple).

Erving Goffman (1976) offre un’analisi delle rappresentazioni di genere contenute nelle immagini pubblicitarie di giornali e riviste americane. In questo testo si afferma che il mondo della pubblicità mostra i comportamenti di uomini e donne secondo i rituali condivisi. Offre quindi una iper-ritualizzazione, ossia una convenzione di convenzioni dei ruoli e dei linguaggi di genere, una stilizzazione di ciò che – per senso comune – è già standardizzato e semplificato all’interno dei frame cognitivi degli individui facenti parte della società americana di quel tempo. Dunque vengono messi in scena gli stereotipi che rappresentano le donne come soggettività deboli, bisognose di guida e protezione maschili, paragonabili a delle bambine. Le immagini pubblicitarie tendenzialmente raffigurano le donne più minute degli uomini, quest’ultimi in una posizione protettiva; delle donne, molto più che degli uomini, vengono rappresentate le mani o le dita, insistendo sulla dimensione di tocco sensuale e delicato. Ciò che mette in luce Goffman è che lo stereotipo è una rappresentazione standardizzata di un tipo specifico di persona o di gruppo di persone che, pur avendo poco in comune con i «veri» uomini o le «vere» donne, è così frequente e pervasiva da sembrare realistica.

A partire dagli anni Ottanta, si mette in evidenza come l’industria pubblicitaria non risulti più distante dalle posizioni del femminismo, piuttosto ne assimila le istanze di base proponendo – in continuità con la logica consumistica – l’immagine ambivalente di donne emancipate, lavoratrici al di fuori del contesto domestico e che nel mondo del lavoro si realizzano. Parimenti, compaiono anche immagini di uomini intenti ad accudire figli e figlie o a svolgere alcune mansioni domestiche. Durante questo decennio, il cambiamento di prospettiva dal modello della parità a quello della valorizzazione femminile induce a prestare maggiore attenzione alla rappresentazione di contro-stereotipi di genere e di elementi modernizzanti nei contenuti dei media (Capecchi, 2006). Negli anni successivi, rimane viva l’attenzione per le sempre più diffuse immagini degli scambi delle aspettative di genere tra uomini e donne, così come delle rappresentazioni di figure LGBTQIA+” (Tampone, 2021).

Man mano che le immagini della donna moglie-madre-casalinga diminuiscono rimanendo relegate alle réclame dei prodotti domestici, si diffonde una rappresentazione della donna «onnipotente», in grado di fare ciò che desidera (Capecchi, 2006), tuttavia «all’interno del messaggio pubblicitario permane un’ambivalenza che smorza questa utopia e riafferma a livello profondo di significato la concezione gerarchica della relazione tra i sessi».

Cosenza, Colombari e Gasparri (2016), analizzando un vasto corpus di campagne pubblicitarie italiane del dicembre 2013, hanno evidenziato come nell’81,27% delle pubblicità prese in esame in cui comparissero delle figure femminili sono state messe in scena: donne modelle (35,52%), donne ornamento (20,20%), donne sessualmente disponibili (12,91%), donne manichino (6,69%), donne a pezzi (4,01%), donne preorgasmiche (1,94%). Queste due ultime ricerche citate mettono a tema la rappresentazione dei corpi all’interno dei testi pubblicitari, in particolare l’ideale di bellezza, prodotto da quelli di snellezza e giovinezza, ma anche la rappresentazione di corpi abili e bianchi. Come sostiene Capecchi (2006), «se la rappresentazione dei ruoli sessuali nei contenuti dei media risulta piuttosto articolata, riguardo ai canoni estetici si assiste alla reiterazione del medesimo messaggio: nella cultura occidentale contemporanea prevale l’ideale della snellezza».

La pubblicità – sottolinea Corradi (2017) – funzionando come un dispositivo di controllo condiziona «seppur virtualmente, la società nel suo complesso attraverso un veicolo infallibile [come] il corpo. “Harvey (2020) riporta come la pressione sociale esercitata in particolare sulle donne nel perseguire una visione irrealistica della bellezza ha implicazioni importanti, come i disturbi alimentari (già analizzati da Bordo, 1997), il crescente consumo di pornografia, l’aumento della domanda di interventi di chirurgia estetica, sintomi di una cultura visiva del corpo. La stessa autrice riporta nel suo libro che altri autori (in particolare cita Katz, 2011 e Killbourne, 2010) sostengono che l’oggettivizzazione delle donne nella pubblicità – anche attraverso la circolazione di immagini di forme e dimensioni corporee irrealistiche – contribuisce alla loro infantilizzazione e disumanizzazione, normalizzando l’aggressività machista e le violenze di genere. Per quanto questi effetti diretti dei media siano difficilmente misurabili e stimabili, sicuramente l’enfasi su determinati standard estetici impone dei confini precisi a ciò che si considera l’appropriata soggettività femminile, contribuendo allo stesso tempo a consolidare rigide forme di scrutinio e giudizio” (Tampone, 2021).

“Ma è questa l’immagine del possesso sul corpo femminile che viene avanti sui media, anche quando i prodotti si rivolgono alle donne stesse. Ad esempio, il marchio arcinoto di vestiti per adolescenti American Appereal, ha fatto nelle sue pubblicità un chiaro riferimento al porno: una delle recenti campagne lanciava un concorso, ovvero inviare la foto del proprio fondoschiena per cercare la ragazza della prossima campagna pubblicitaria. Questo fenomeno è strettamente connesso ai modelli che le giovani ragazze si trovano di fronte, dunque non si può che riflettere su quale messaggio possa passare la televisione italiana; si pensi anche al fenomeno del velinismo, creato da trasmissioni come Striscia la notizia” (Cretella, 2013).

Sulla base di queste evidenze, quello che ci si chiede è “come si costruisca l’identità di genere nella costrizione di stereotipi così pressanti? Tutto ciò impatta, inevitabilmente, sulle aspettative lavorative delle giovani ragazze italiane. Ad esso va sommato il “trend dell’emancipazione negativa”: queste donne rivendicano la vendita del corpo e dell’immagine di sé come “crescita professionale” libertà, emancipazione, ma questo è un inganno mediatico. Sono libere solo di mercificare se stesse, e quello che vendono rimane ancorato al corpo. Non vendono le proprie capacità professionali o teoriche, e quando la loro avvenenza scema, esse vengono sostituite da ragazze più giovani. Una merce tra le altre, inglobata dal capitalismo, le donne esistono come merci e come consumatrici di merci, quasi mai come soggetti. Vengono sempre “parlate” e spesso si presentano “mute” e nude sulla scena dell’immaginario mediatico” (Cretella, 2013).

Conclusioni

Giunte e giunti a questo punto, diventa necessario tirare le fila del discorso. Abbiamo visto come, per troppo tempo, la violenza sulle donne ci sia stata raccontata, rappresentata, disegnata nei modi più disparati, fino ad arrivare ai giorni nostri dove, sembra, che le cose non siano affatto cambiate, ma che anzi, si siano evolute nella direzione peggiorativa attraverso i mezzi di comunicazione di massa, favorendo la persistenza di una considerazione della violenza come una sorta di «normalità» tollerabile dalla società.

E’ stato anche dimostrato come il modello dell’aggressività venga appreso per imitazione: si ricordi, a tal proposito, Bandura (1961) con l’esperimento della bambola Bobo. Tante evidenze ci riportano, inevitabilmente, a una totale assenza di consapevolezza rispetto a come certi modelli atavici si ripetano nel tempo e alla totale assenza di una educazione di genere già a partire dagli asili nido. “Una disciplina assente anche dai manuali scolastici, in cui anche le donne famose nella scienza e nella cultura vengono praticamente escluse dal canone della cultura che trasmettiamo ai nostri figli. La cultura delle donne non è un genere letterario o artistico, una sottocategoria o una specializzazione tutt’al più approfondita in qualche corso universitario, ma il portato di metà della popolazione mondiale che è stato scientemente cancellato dalla nostra memoria culturale” (Cretella, 2013).

Solo recentemente, il Ministero per le pari opportunità ha cercato di adeguarsi dando qualche direttiva che però è rimasta lettera morta perché non sono stati stanziati i finanziamenti per mettere in campo i progetti prefissati. Sono partite altre iniziative da parte di associazioni maschili nascenti al fine di fare autocoscienza e di impegnarsi sul fronte della violenza contro le donne e probabilmente questa è la giusta direzione su cui lavorare perchè solo con il concreto sostegno degli uomini, questo stato di cose potrà cambiare.

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  • Plutarco, Le vite di Teseo e di Romolo in Le vite parallele, a cura di Carmine Ampolo, Mario Manfredini, Modadori, Milano, 1993, p. 117 e sgg.
  • Tampone, F., 2021. Le rappresentazioni delle violenze di genere nelle pubblicità sociali italiane. Un’analisi intersezionale. Collana “Studi di Genere. Quaderni di Donne & Ricerca” – Vol. 7 2021 CIRSDe – Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere Università degli Studi di Torino www.cirsde.unito.it cirsde@unito.it.
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  • https://it.wikipedia.org/wiki/La_Belle_Dame_sans_Merci

Dott.ssa Nicoletta Caruso

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