Ritiro Sociale e dinamiche familiari

Blurred sad boy leaning open hand against glass door.

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica abilitata, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia.

Abstract

Il fenomeno del Ritiro Sociale riguarda quei ragazzi che, ad un certo punto della loro esistenza (prevalentemente durante la fase adolescenziale), decidono volontariamente di abbandonare la scuola, le relazioni amicali e tutti i contatti sociali, per rinchiudersi nella propria camera, auto-negandosi la possibilità di vivere “in relazione” con gli altri; la chiusura avviene anche nei confronti dei propri familiari, con i quali ci si rifiuta di avere ogni tipo di contatto, sebbene si viva tutti dentro una stessa casa.

Le dinamiche che portano questi soggetti a chiudere con il mondo e scegliere la solitudine, individuando nella propria camera l’unico spazio vitale, sono tante e diverse: “ognuno di loro ha la sua storia ed una sofferenza unica e personale”.

Un ascolto empatico e professionale di ciò (per voce dei diretti interessati e/o, nella maggior parte dei casi, dei familiari, dai quali parte quasi sempre la richiesta di aiuto) puó permettere di trovare le chiavi di lettura per capire meglio il disagio di vivere e la sofferenza esistenziale di chi non riesce a domandare aiuto se non attraverso stati di malessere e comportamenti sintomatici, talvolta anche molto gravi.

Ritiro Sociale e dinamiche familiari

“Per tentare il recupero di queste situazioni[…] c’è un confine da varcare ed è un atto che non si compie da soli, le parti in causa sono sostanzialmente due: il giovane e la famiglia. Ad ognuno è richiesto qualcosa: al giovane coraggio, al genitore comprensione e delicatezza”, (C. Ricci).

Il Ritiro Sociale è un fenomeno che, dopo aver superato i confini nipponici, si è spostato anche in Occidente ed è giunto sino all’Italia dove, seppur con alcune differenze (legate alla diversità culturale tra i Paesi), si sta parecchio diffondendo soprattutto negli “ultimi anni”.

A questo proposito non si può non fare riferimento al periodo di Pandemia appena trascorso che, con la sua quota di drammaticitá e le sue drastiche restrizioni, innestandosi su condizioni di fragilità preesistenti, ha avuto delle ripercussioni negative sulla salute e sul benessere di tutti, in generale, e di alcuni soggetti in modo particolare.

Tra questi, proprio i giovani adolescenti che si trovavano già a vivere –a prescindere– una delicata quanto difficile fase della propria vita, considerata “critica” sotto molti aspetti.

Si può affermare che per essi la Pandemia abbia rappresentato una “crisi nella crisi”, e può essere considerata un fattore influente anche sull’”aumento dei casi di ritiro sociale”;

basti pensare, per esempio, al fatto che, per molti mesi, il distanziamento fisico e l’isolamento hanno rappresentato delle “condizioni di sicurezza” imposte per la tutela della propria incolumità e salute, facendo percepire gli altri ed il mondo fuori come “pericolosi”.

Lo “stare dentro”, in un luogo di protezione, come fosse una tana dove rifugiarsi per sfuggire ai contatti reali e alle esperienze concrete -in quel particolare periodo palesemente rischiosi- ha trasmesso un senso di sicurezza che, da necessità, una volta cessata l’emergenza, in alcuni casi, si è trasformato in una “scelta”.

Ma bisogna guardare a tutto ciò piú come ad un’esperienza che ha “esacerbato” delle modalità di disagio già preesistenti, facendo piuttosto emergere problematiche latenti; il ritiro sociale rimane comunque sintomo di “altro”.

Le dinamiche che portano infatti alcuni ragazzi a chiudere con il mondo e scegliere la solitudine, individuando nella propria camera l’unico spazio vitale, sono tante e diverse: “ognuno di loro ha la sua storia ed una sofferenza unica e personale”.

Un ascolto empatico e professionale di ciò puó permettere di trovare le chiavi di lettura per capire meglio il disagio di vivere e la sofferenza esistenziale di chi non riesce a chiedere aiuto se non attraverso stati di malessere e comportamenti sintomatici, talvolta anche molto gravi.

Per questi giovani le conseguenze post pandemiche si aggiungono ovviamente al giá delicato e complesso “periodo adolescenziale”, durante il quale si è incapaci di dare un senso alla propria esistenza, persi in una forma di contestazione ad oltranza e di disinteresse cosmico, frutto di fragilità ed incertezze tipiche di tale momento di passaggio evolutivo.

Volendo rintracciare le caratteristiche principali di questa fase di vita, non si può non fare riferimento alla condizione esistenziale per eccellenza degli adolescenti che consiste nel non risiedere in un “topos identitario” stabile e certo, e nel varcare continuamente il limite posto tra fanciullezza e adultità, alla ricerca di una propria identità.

In questa “terra di confine”, spazio ambiguo e difficile da abitare, ci si ritrova a dover rivedere tutte le proprie certezze e a doverne ricostruire di nuove, con tutte le ambiguità, le contraddizioni e le incertezze del tempo odierno (R.G. Romano, 2008).

Il transito da una fase all’altra del ciclo di vita è sempre un momento difficile, in cui ogni individuo deve lasciare qualcosa di sé alle spalle e, contemporaneamente, affacciarsi al nuovo che la vita presenta. Ed è proprio qui che si staglia la crisi dell’adolescente nel “non più” e nel “non ancora” (non più bambino e non ancora adulto). Questo “stare nel mezzo”, fluttuante, porta l’adolescente a vivere tutto in perenne stato di crisi (Ibidem).

Ma è proprio questa “indeterminatezza” che, se vissuta in pienezza e col sostegno dell’adulto, diviene una condizione “matrice” di opportunità, di nuove possibilità, di creatività, e permette di poter affermare nel mondo la propria nuova esistenza; mentre se vissuta “in solitudine” comporta inevitabilmente ferite e cicatrici che rimarranno impresse indelebilmente, perché proprio da questa fase adolescenziale dipenderanno molte scelte delle fasi successive del ciclo di vita.

Si può notare come questa “ambivalenza” tipica del periodo adolescenziale si riscontri anche il alcune dinamiche del ritiro sociale: è infatti possibile affermare che i soggetti che scelgono l’auto-reclusione si posizionino in una sorta di “membrana”, uno “spazio sospeso” che consente di vivere “in bilico” tra, ad esempio, l’essere in casa ma non esserci concretamente, voler scappare anche dalla famiglia ma di fatto rifugiarvisi, minacciare in casi estremi il suicidio ma non agirlo, l’avere qualche contatto/relazione virtuale tramite i dispositivi tecnologici ma non investire emotivamente in essi, accontentarsi e privilegiare l’illusione di una compagnia senza gli impegni dell’amicizia, essere virtualmente connessi ma poi concretamente e fondamentale soli…

Voler vivere ma non sapere come.

“Il soggetto ritirato sociale scivola nel vuoto e nel silenzio, ponendosi punto di confine tra la sua esistenza e la sua negazione”, (D. Tortorelli, 2022).

A proposito della Rete occorre sin da subito precisare che essa non è la causa della disconnessione dalla realtà; nonostante esista una relazione tra ritiro sociale ed uso/abuso di Internet, essi non sono sovrapponibili.

– In alcuni casi di ritiro sociale “grave” l’uso della Rete è del tutto assente in quanto la disconnessione è “totale” e, oltre a riguardare qualsiasi contatto sociale reale, si estende anche al mondo virtuale. Il soggetto con ritiro severo non è, infatti, capace nemmeno ad accedere alle possibilità date da Internet, né di creare eventuali contatti virtuali, poiché questi implicano comunque una relazione con l’altro e rappresentano una forma di contatto sociale, seppur virtuale.

– Nei casi in cui invece l’uso eccessivo di Internet è “precedente” il ritiro, esso può ritenersi un elemento “compartecipante” all’autoreclusione e, soprattutto, non l’unico.  La Rete non è la causa del ritiro, ma è semmai uno degli strumenti che lo rende visibile e manifesto; essa restituisce, in maniera molto amplificata, tutta l’incertezza, il disorientamento e i dubbi della società contemporanea.

Come non rilevare il fatto che, a di lá del fenomeno del ritiro sociale, da anni oramai, siamo tutti innegabilmente interessati da una vera e propria “rivoluzione antropologica” che sta trasformando gli “uomini della strada” in “uomini della stanza”? (S. Turkle, 2012)

– In generale, è invece possibile sostenere che l’abuso della Rete si verifichi piú facilmente “successivamente” (ossia una volta che è cominciato il ritiro), soprattutto per motivazioni di ordine psicologico:“il ritirato sociale trova nel Web un surrogato alle relazioni, un antidoto al vuoto e all’isolamento; per le persone “sole” la Rete è ancora piú seducente”, (S.Turkle, ibidem).

“Spesso Internet rappresenta una sorta di compensazione per sopperire a quell’incombente senso di vuoto che caratterizza l’auto-recluso. La Rete è perfettamente funzionale rispetto alla segregazione: consente di mantenere vivo un surrogato di comunicazione, di conservare una parvenza di “parola” laddove la sua esclusione completa rischierebbe di far scivolare il giovane nel dominio della follia, e di tradursi anche in comportamenti autodistruttivi”, (R. Callina, 2012).

La Rete “stordisce ed allontana dal mondo in cui non si trovano né motivazioni né passioni […] ed aiuta a superare lo spettro della solitudine che la stanza preannuncia” (C. Ricci, 2008).

A questo proposito occorre una precisazione: la solitudine può avere accezioni diverse anche di valenza opposta, e può essere principalmente distinta in “solitudine interiore-creatrice” e “solitudine dolorosa-isolante”.

Essere soli può infatti non voler dire necessariamente “sentirsi soli”, ma separarsi temporaneamente dalle persone e dalle quotidiane occupazioni, per rientrare nella propria interiorità e nella propria immaginazione; essa è qui intesa come “condizione ricercata da chi si lancia in un’esplorazione della propria interiorità e del proprio Sé, senza però perdere il desiderio e la nostalgia della relazione con gli altri e con i compiti che la vita ha affidato”, (E. Borgna, 2021).

L’”isolamento” avviene invece quando ci si chiude in sé stessi perché si viene rifiutati dagli altri o, più spesso, sulla scia della propria stessa indifferenza o di una “volontaria esclusione sociale”.

In quest’ultimo caso, in un primo momento, l’auto-reclusione può rappresentare una sosta, un riparo temporaneo dalle richieste di una società sempre piú complessa, piú competitiva, piú arrogante, di fronte alle quali non ci si sente psicologicamente all’altezza.

A questo proposito “i giovani di oggi risultano eccessivamente protetti dalla famiglia, sempre meno inclini ai sacrifici e meno sensibili a diventare indipendenti; tutti elementi che possono favorire la “resa finale”, cioè il ritiro sociale”, (C. Ricci, op. cit.).

Quando un giovane comincia a pensare di ritirarsi socialmente fra le cause c’è certamente un senso di “prostrazione psichica”: chi ricerca il ritiro sociale sostanzialmente è stanco, e vuole prendersi una pausa. È stanco a volte fisicamente, ma sostanzialmente è stanco di non sentirsi “adatto” ed all’altezza di situazioni che richiedono “continue ed elevate capacità di performance”, quasi come se il proprio valore dipendesse unicamente da una “valutazione” del proprio successo o fallimento di fronte a tutto ciò.

Situazioni tendenti dunque a favorire stati psicologici di incertezza, insicurezza e disorientamento che, per i soggetti emotivamente più esposti, possono rappresentare una “spinta decisiva” verso il ritiro.

Da un’idea iniziale di “temporaneitá”, alla lunga, si verifica però una sorta di “incastro” che non permette piú di uscire. Con il passare del tempo non ci si sente affatto riposati e rigenerati ma, piuttosto, l’idea del mondo fuori, comincia a creare veri e propri stati di angoscia e timore, anche solo al pensiero di dover affrontare una realtà della quale non ci si sente, ancora più di prima, all’altezza e parte integrante.

Ci si scopre così senza alcun motivo che possa spingere ad uscire, pervasi da sentimenti di impotenza, perdita di controllo e fallimento, e si decide di abbandonare qualsiasi eventuale tentativo di provarci, facendo un atto definitivo di rinuncia e di “suicidio sociale”.

Il ritiro sociale diventa cosí “il nucleo primario del funzionamento individuale in soggetti che, capaci di intendere e volere, scelgono di vivere in “anoressia sociale” senza una missione socialmente condivisa e comprensibile”, (D. Tortorelli, op. cit.);

“un vero e proprio nucleo psicopatologico a sé, in soggetti che non presentano, perlomeno all’esordio, alcun tipo di psicopatologia e che fino a quel punto hanno avuto un funzionamento adeguato, (Kato et al , 2011).

Un grave comportamento di ritiro sociale, non connesso a traumi ripetuti che strutturano processi dissociativi né a cause di tipo organico, potrebbe essere considerato come un nuovo disturbo psichiatrico in un futuro DSM, (Teo e Gaw, 2010).

Il Ritiro Sociale oggi rappresenta una “nuova emergenza educativa” e rientra nei B.E.S., Bisogni Educativi Speciali.

Esso è inoltre considerato una patologia di secondo livello, o “culture-bound” (CBS, sindromi culturalmente caratterizzate) in quanto legata a particolari sviluppi socio-culturali che “prescrivono le modalità in cui manifestare determinate problematiche”: il dolore di ogni soggetto è personale, ma il modo in cui urlarlo deve essere “impattante”.. deve essere un modo di cui la società possa accorgersi; deve riguardare modalità alle quali famiglia e società siano “sensibili”.

“Oggi, nella società dei selfie e dell’apparire, dove l’attuale tendenza prevede un continuo “mostrarsi”, gli auto-reclusi decidono di uscire dalla scena sociale, nascondendosi e rifugiandosi in una stanza!”

Si tratta innegabilmente di un comportamento controtendenza, altamente provocatorio, che si ritiene rientrare inoltre “in quelle forme di attacco e annullamento del corpo che sembrano stare diventando la principale manifestazione del disagio giovanile degli ultimi anni, che non trova altre forme per essere comunicato”, (M. Lancini, 2022).

[A questo proposito, per quanto riguarda la sfera femminile, basti pensare a tutti i disturbi della condotta alimentare come anoressia e bulimia; oppure ai fenomeni di autolesionismo: “anche il ritiro sociale rientra in questo schema, quello di voler far sparire il proprio corpo sottraendolo alla vista degli altri; in qualche modo “morendo” socialmente”, (M. Lancini, ibidem)].

Ma ciò che piú bisogna rilevare è che “a colludere” con la situazione fin qui descritta è anche e soprattutto l’intero sistema familiare che, nella maggior parte di questi casi, presenta delle caratteristiche ben precise.

Non è un caso infatti che questa patologia si diffonda, oltre che in delle società industrializzate dove l’eccellenza viene continuamente prescritta, in “specifici contesti familiari”.

Il Dott. Saito Tamaki (psichiatra giapponese che, all’inizio degli anni ’80, coniò il termine “Hikikomori”) esaminando le dinamiche del ritiro sociale in Oriente, attribuisce questo disagio al “contesto sociale e familiare”, all’interdipendenza fra genitori e figli e alle enormi aspettative su di essi, riversate in particolare sul primogenito, colui che in Giappone deve portare avanti il nome e l’onore della famiglia.

Qui vige la cultura dell’azienda-patria che richiede agli uomini dovere, efficienza e conformità, che li porta a stare prevalentemente fuori casa per motivi di lavoro (assenza/perifericitá); un mandato al quale è quasi impossibile sottrarsi, la cui non aderenza a ciò produce senso di colpa e profonda vergogna.

Di contro, le madri, sono un tutt’uno col proprio bambino, al quale riservano un accudimento che non lascia spazio a movimenti di separazione-differenziazione, prescrivendo una vicinanza sinciziale sia fisica che psicologica (invischiamento); questi sentimenti di forte devozione e dipendenza verso la madre sono culturalmente accettati e si protraggono fino ad un’etá piuttosto avanzata dei figli.

I padri sono un modello sul piano lavorativo, ma inadeguati sul piano emotivo. Nonostante la loro perifericitá rimangono comunque una forte presenza simbolica, un modello da imitare, anzi superare.

Compito dei figli, però, è anche quello di non abbandonare, di non deludere emotivamente la madre, in virtú dei sacrifici da essa fatti nei loro confronti; cosa che trasferirá al figlio una sorta di obbligo di vicinanza.

[…]Da tutto ciò (fedeltá alla madre, ma anche obbligo di successo sulle orme del padre) nasce un forte conflitto di lealtà, che intrappola e fa rimanere bloccati in una sorta di incapacità di agire ed affrontare il dilemma, (D. Tortorelli, 2023).

Schiacciati da queste due prescrizioni inconciliabili, questi soggetti, sempre piú spesso, scelgono il ritiro sociale come “forma di resa” davanti ad una condizione che spinge al successo lavorativo fuori casa sul modello paterno, ma che impedisce di fatto lo svincolo soprattutto dalla madre, alla quale devono essere garantiti a lungo vicinanza e devozione.

Anche in Europa la situazione appare pressochè simile, e da un’analisi delle dinamiche familiari disfunzionali e a rischio nella formazione e cristallizzazione di un comportamento di ritiro sociale si riscontrano:

atteggiamenti iperprotettivi della madre ed un eccessivo attaccamento che, oltre ad impedire lo sviluppo di un sentimento di fiducia nelle proprie capacità, possono tradursi in un incremento del senso di inferiorità del figlio che rischierá di sentirsi “inadeguato” ad affrontare i compiti sociali, soprattutto se il padre non avrà la capacità di rompere la diade simbiotica madre e figlio;

un’immagine paterna iper-idealizzata che costituisce un altro elemento di rischio nella misura in cui il giovane, per evitare il fallimento conseguente all’irraggiungibilità del modello paterno, potrebbe rifugiarsi nel suo ritiro sociale alla ricerca di un “senso di sicurezza” che nel mondo non sente di poter trovare;

aspettative troppo elevate da parte di genitori iper-aderenti agli standard dettati dalla società, che si traducono nella concretizzazione da parte del figlio, di una “chiusura protettiva” data da una sua incapacità di adeguarvisi: la paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che ci si aspetta da lui, provoca una rinuncia alternativa assai più rassicurante della sconfitta, in uno scarto tra “desiderato” e “reale” troppo ampio da colmare in altra maniera.

Pretendere l’assoluto successo in tutti gli ambiti di vita, dal vissuto scolastico, al successo nelle materie di studio, al rapporto con i pari, alle prestazioni sportive, fa vivere al ragazzo un “forte senso di sconforto e solitudine” di fronte alla sua inadeguatezza, in un mondo che richiede performance sempre più elevate, (R. Callina, art. cit.);

se non si è riusciti a munirsi del bagaglio di coraggio necessario, (di rischiare, mettendo in conto anche eventuali fallimenti e la gestione degli stessi), il ritiro volontario appare molto allettante, se non addirittura l’unico epilogo possibile.

“La casa è come il richiamo delle sirene per Ulisse, ed una volta dentro non sono facilmente intercettabili altre possibilità”, (D. Tortorelli, art. cit.).

I ritirati sociali vanno a rinchiudersi nelle viscere familiari; la stanza rappresenta simbolicamente l’utero, il grembo materno. Nel loro volersi ritirare anche dalla propria famiglia e dalle sue pressioni, si rinchiudono, paradossalmente ed in maniera contraddittoria, dentro di essa.

Si tratta dunque di una famiglia dalla quale si scappa ma all’interno della quale ci si rifugia …perché in fondo la famiglia, “prescrive ma non abbandona”.

Ed è proprio da qui che bisogna partire nel tentativo di comprendere le dinamiche del fenomeno del ritiro sociale, ed impostare eventuali percorsi di cura; proprio dal luogo piú vicino a questi soggetti, sia realmente che metaforicamente, cioè la loro famiglia.

Ci si vuole riferire soprattutto a quelle famiglie che “armate di buona volontà, siano veramente interessate a mettersi davvero in discussione, senza domandarsi perché abbiano un figlio chiuso in camera proprio loro che, per quel figlio, hanno dato tutto quello che potevano.

Quei genitori che, ancor prima di voler far uscire di casa il figlio, siano pronti a riformulare i loro ruoli e guardare dentro sé stessi con coerenza e sincerità, abbandonando le mistificazioni con cui hanno convissuto, di cui spesso non ne sono neanche consapevoli.

[…] Questo sarebbe sufficiente per mettere in movimento un diverso “ambiente emotivo” che influenzerebbe tutti, compreso il figlio rinchiuso”, (C. Ricci, op. cit.).

Chi si occupa di cura è consapevole della complessità di un intervento terapeutico in questi casi, e di come sia improbabile che arrivi una richiesta di aiuto, soprattutto da parte dei diretti interessati.

I ritirati sociali sono “sintonici” con il proprio progetto di segregazione volontaria, non sentono alcun bisogno di aiuto e non si aspettano aiuto da nessuno; è per questo che è importante sensibilizzare i genitori contro i puntuali vissuti di vergogna che si provano in questi casi, e che fanno permanere per molto tempo in situazioni di blocco ed immobilità, facendo perdere del tempo prezioso che si potrebbe invece spendere in un lavoro con uno specialista ed il proprio figlio.

Un eventuale percorso terapeutico deve riguardare innanzitutto ed individualmente il ritirato sociale, prendendo in considerazione, soprattutto all’inizio, anche la possibilità di interventi domiciliari e/o di ulteriori modalità di cura alternative al colloquio clinico classico in presenza quali, ad esempio, forme di cybertherapy attraverso la Rete;

ma non ci si può assolutamente esimere dall’allargare l’approccio anche ai familiari significativi, per un’esperienza interpretativa e trasformativa globale, che possa fare scoprire sensi e significati lá dove adesso non ci sono.

D’altronde l’individuo si costruisce a partire dalla “casa familiare e relazionale” che ha abitato. Pertanto è bene non dimenticare mai che i vissuti, i disagi (quanto l’agio) non sono qualcosa che appartiene esclusivamente al soggetto (in questo caso al giovane adolescente), ma sono l’espressione di ciò che avviene nelle relazioni familiari tra madre-padre-figlio, e nella fratria. […]Nelle relazioni educative ed affettive il disagio dell’adulto si trasforma in un disagio del ragazzo e, allo stesso tempo, il disagio del ragazzo è sempre frutto di un disagio nella relazione triadica o dei genitori”, (G. Salonia, 2017).

Per evidenziare questa “interdipendenza relazionaletra i vari elementi del sistema famiglia, le ricerche condotte a questo proposito nei casi di ritiro sociale, mostrano quasi sempre l’esistenza di uno “stallo nella coppia genitoriale”: “il ragazzo auto-recluso devia la tensione di un conflitto mai apertamente espresso sul proprio sintomo e sull’accudimento che esso impone”, (Tortorelli, art. cit.).

Il ritiro sociale si mostra solo apparentemente come una forma di disagio che afferma di voler chiudere ogni tipo di comunicazione, mentre di fatto “la esaspera” inchiodando in una paralisi infinita l’evoluzione familiare.

In realtà il ragazzo condiziona fortemente i genitori con il proprio sintomo, ma lo fa attraverso una forma di protesta silenziosa, in linea con lo stile comunicativo familiare tipico di certe famiglie (invischiate) dove non si parla mai chiaro e i conflitti non si affrontano mai, (ibidem).

Il trattamento dei casi di ritiro sociale non è semplice proprio in virtú delle dinamiche relazionali familiari implicate, che sará necessario raggiungere e svelare con un efficace lavoro terapeutico, ma che nel frattempo agiscono come fattori di deterrenza;

si vuol fare riferimento ai giá citati sentimenti di vergogna che causano un importante ritardo nella richiesta di aiuto, consentendo un incontro con lo specialista a situazione già cronicizzata, ma anche e soprattutto alla mancanza di “compliance” sia del pz (che oltre all’”egosintonia” col proprio disturbo è totalmente restio all’incontro con l’altro), che dei familiari che tendono, fino alla fine, ad evitare persone e condizioni valutative.

Lo strumento principale in questo caso, come in ogni psicoterapia, non può essere altro che “la relazione”, il luogo dove è possibile fare passi graduali ma necessari…

…per riuscire a prendere in considerazione la possibilitá di riuscire ad andare “oltre” quella porta chiusa sia fisicamente che metaforicamente che, con la sua funzione di barriera protettiva, separa dal mondo esterno e dá la garanzia di non essere soverchiati da vissuti emotivi ritenuti ingestibili.

Solo cosí, lentamente e molto gradualmente, sará possibile avvicinare quella sofferenza, lasciarla emergere e prendersene cura, attraverso un lavoro che miri a lenire pian piano le ferite dell’isolamento, al di lá dell’accettazione di un atto apparentemente pacifico ed innocuo, che cela in realtà un disagio psicologico significativo ed acuto meritevole, senza alcun dubbio, di essere ascoltato ed accolto nel giusto modo.

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Bibliografia e Sitografia:

Borgna E, “In dialogo con la solitudine”, Einaudi, 2021

Callina R., “Hikikomori, oltre i confini nipponici”, 2012 https://www.robertocallina.com/2012/03/hikikomori-oltre-i-confini-nipponici.html?m=1

Kato TA, Tateno M, Shinkufu N, et al. “Does the hikikomori syndrome of social withdrawal exist outside Japan? A preliminary international investigation”. Soc Psychiatry Psychiatr Epidemiol 2011.

Lancini M., “Figli di Internet”, Co-autore insieme Cirillo L. (Erickson, 2022).

Ricci C, “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”, Franco Angeli, 2008

Romano, R. G., “Ciclo di vita e dinamiche educative nella società post moderna”, F. Angeli, 2008

Salonia, G, “Verso un nuovo stile di cogenitorialitá. La prospettiva gestaltica”, A. Merenda (ed.), 2017

Teo AR, Gaw AC. “Hikikomori, a Japanese culture-bound syndrome of social withdrawal? A proposal for DSM-5”. J Nerv Ment Dis 2010.

Tortorelli D., “Voglio stare solo, ma connesso. Hikikomori, famiglie e dinamiche relazionali”, Titolo Rivista PSICOBIETTIVO, Anno di pubblicazione 2022, DOI 10.3280/PSOB2022-002005

Tortorelli D., Seminario “Il chiodo conficcato nel cemento. Hikikomori: clinica dinamiche relazionali e possibilità di cambiamento”, Catania, gennaio 2023

Turkle S., “Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri”, Codice edizioni, Torino 2012

Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica abilitata, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale, Responsabile Settore Comunicazione Pronto Soccorso Psicologico-Italia