Pasqua tra miti, simboli e rituali

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico

Pasqua

Questa è la settimana che viene definita “Santa”  perché ogni giorno rimanda ad un episodio evangelico legato alla morte e alla passione di Gesù Cristo. E’ una settimana piena di simboli, rituali e miti che hanno pervaso non solo la nostra infanzia,  ma che riempiono di interrogativi la nostra stessa esistenza. E’ la settimana in cui dobbiamo confrontarci con le paure e le angosce derivanti dalla precarietà dell’idea rimossa della morte come fine della vita. Possiamo dire con Freud che è la settimana dello scontro finale tra Eros,  forza pulsionale che spinge verso la vita e la felicità, e Thanatos  la spinta distruttrice e dell’odio. Prima di Freud già Empedocle, vissuto molto tempo prima della stessa venuta di Cristo,  aveva individuato e concettualizzato un dissidio, una fantasia cosmica tra due forze: philìa (amore e amicizia) e neikos (discordia e odio).   Due forze che,  seppur opposte, sono essenziali  per l’esistenza dell’individuo e dell’intera umanità : “Due dimensioni che si smembrano e si ricompongono pian piano, che accompagnano le vita degli esseri umani dall’amore (Eros) fino alla morte (Thanatos) , percezioni che si confondono fino ad approdare ad una lacunosa verità: nulla ci rende più contradditori più della contraddizione della vita stessa. Quasi in una sorta di ossimoro catulliano, le sfere appaganti dell’amore e della morte ci pervadono in maniera costante e disuguale, regalandoci una costante ricerca di piacere e distruzione (destrudo)”.  E’ in questa disperata ricerca che l’uomo  deve ancorarsi ai miti e ai simboli che vengono trasmessi da generazione in generazione.  Di fronte alla contraddizione tra forze vitali e distruttive,   gli individui  sperimentano il senso d’incertezza e non appartenenza a una storia comune che li porta all’incapacità di decidere e di agire. Per rispondere a queste sensazioni hanno bisogno di de-storificare il negativo collegandosi ai miti, che diventano indici di senso in grado di sostituire la non presenza, attraverso i rituali.  Amalia Signorelli sostiene che   i dati esistenziali che producono crisi  “vengono mentalmente astratti dal contesto storico per entro il quale sono stati  esperiti e vengono  ricondotti  a un tempo e a una vicenda mitica”.  I miti, come sostiene Galimberti,  sono direttamente collegati al sacro che è un termine “indoeuropeo che noi traduciamo con “separato” e fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro e successivamente di “divino”.  Il sacro,  per sua natura, è il luogo dell’indefferenziato, dell’ambivalenza, dell’indeterminatezza, dell’artistico. E’ il luogo dell’indifferenziato poiché le definizioni sono delle convenzioni che permettono di trovare significati univoci e convenzionali agli oggetti in modo, da un lato, di “ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti” e, dall’altro, consentire “di nominare le cose secondo un significato universale”. Il definire, il differenziare è tipico dell’attività della ragione che si difende dal non conosciuto, dalla non prevedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di catalogare le cose e i comportamenti per evitare l’imprevedibilità che è tipica della follia. Ciò vuol dire che nell’area sacrale le cose possono assumere mille e più significazioni.  L’uomo ha la necessità, il bisogno del sacro per  razionalizzare l’ idea della morte, del non esserci più.  Heidegger, a tal proposito, ha coniato il termine di sein zum tode (Essere per la morte) come condizione in cui l’individuo deve prendere coscienza del suo essere mortale e, soprattutto, del suo esserci anche nel non esserci. E’ attraverso la generatività, il generare attraverso Eros che riesce a sconfiggere Thanatos. E’ nel ricordo di ciò che ha generato che potrà continuare a vivere sopravvivendo a se stesso.  In sostanza potrò esserci  nella misura in cui tramando il mio nome. “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue prendete e mangiatene tutti” denota la forza della trasmissione del nome nella comunione che diventa simbolo unificante del rapporto tra l’uomo e Dio e tra gli stessi uomini. E’ nel nome del corpo e del sangue di Cristo che i cattolici si riuniscono in un legame indissolubile con il Divino.  Frank , a tal proposito, sostiene che:

“Gli atti linguistici di natura simbolica o rituale sono oggetti di una credenza. Essi presuppongono la funzione denotativa del linguaggio, ma prendono quel segno o quella serie di segni come spunto per un proiezione di senso che si sovrappone invisibilmente al loro significato abituale”.

Il sistema di credenze è da riferirsi al mito che lo stesso autore definisce come un racconto “in cui una certa realtà naturale o umana viene riferita alla dimensione del sacro, e questo riferimento la fonda”. Fondare è utilizzato nel senso di dedurre ovvero di una spiegazione di tipo relazionale.

L. Kolakowski, in accordo con Frank, afferma che il mito è fondamento “infondato” poiché non può essere compreso all’interno delle categorie razionali o scientifiche senza il rischio di trasformarlo in dottrina. Piuttosto, esso dà un senso alla storia individuale, comunitaria, alla logica, alla conoscenza pratica rispondendo all’assurdità del mondo che rimanda sempre al niente, al disorientamento cui ci espone l’esperienza pratica. Legando la morte all’amore nell’ultima cena Gesù da un comandamento nuovo ai suoi discepoli: ama il tuo prossimo come te stesso.

In fondo amore e morte vanno di pari passo. Sartre sostiene che la morte rende l’ amore eterno: “Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell’altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente. La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa il guardiano”. Galimberti  analizzando l’angoscia di morte, affferma che quest’ultima “non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita …… proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all’amore, questo non si estingue con la morte della persona amata”.  La morte rinnova il legame in quanto lo rende trasmissibile come scrive E. Severino “La presenza è sempre, e non coincide con l’apparire e lo sparire.

Anzi la morte, essendo un tempo indefinito rispetto alla vita, permettendo la trasmissibilità e l’eredità, rende il legame eterno. Sempre Galimberti arriva a sostenere che “non è la morte a estinguere l’amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell’amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c’è solo infedeltà. Solo nell’amore c’è eternità”.  Freud, nel tentativo di consolare l’amico Binswanger per la perdita del figlio maggiore, scrive:  E’ noto che il cordoglio acuto dopo una tale perdita passerà, ma si resta inconsolabili, non si troverà mai un compenso. Tutto ciò che può subentrare, anche se riempisse il posto rimasto vuoto, resta qualcosa di diverso. E, a dire il vero, è giusto che sia così. E’ l’unico modo per proseguire nell’amore da cui non si vuol desistere.

Quel nuovo comandamento, comunque, contiene qualcosa in più: il riconoscimento dell’Altro prendendo coscienza di se stessi. La possibilità di amare è legata alla capacità di amarsi. I teorici della mente molto tempo dopo diranno che la capacità meta rappresentazionale dipende dalla conoscenza di se stessi. In gioco c’è la salvaguardia della convivenza civile, della civiltà tant’è che Freud sosterrà che quest’ultima si fonda sul principio dell’inibizione della pulsione alla meta. Lacan renderà questo concetto ancora  più comprensibile sostenendo che il godimento del desiderio è possibile solo all’interno della legge. Sono i legami che rendono l’uomo un essere sociale e presuppongono la presenza dell’ Altro in modo da potersi riconoscere. Il bisogno di riconoscimento è una esigenza primordiale dell’individuo che porterà Bowlby  e Winnicott ad affermare che l’individuo esiste come parte di una relazione:  all’inizio della vita, ognuno esiste perché parte di una relazione e il suo sviluppo dipende dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento.

La Arendt, a tal proposito sostiene, che tutti gli esseri viventi uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, ma sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti. Il farsi riconoscere tra l’altro, come informa Sarason, porta a sentirsi appartenente ad una collettività stabilendo un sistema di rapportie di interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari. I discepoli hanno dovuto lasciare tutto per seguire Gesù.

L’eucaristia, inoltre, secondo San Paolo, è il principio unificatore che contrasta le divisioni tra le generazioni, i gruppi e i popoli, ma anche le proiezioni nefaste sul fratello. Le divisioni però, ammonisce San Paolo, sono anche dentro ciascuno di noi. Cigoli fa risaltare che “chi non riconosce le proprie divisioni interiori e il proprio limite non può avvicinarsi al fratello ed è proprio per questo che ricorre alla proiezione del male sull’altro”.

E’ quello che accade nella giornata del venerdì in cui si consuma la tragedia in senso  nietzscheriano in cui si scontrano passione e razionalità. La morte in croce annunciata e voluta da Gesù non può essere riconosciuta dalla razionalità umana. Il dare la vita, il donare la vita può essere effetto dell’Eros piuttosto che di Thanatos, può essere un atto d’amore e non di distruzione. E’ nel simbolo o archetipo della croce che i cristiani si riconoscono. Nel Convivio Platone sosteneva che ogni uomo è simbolo giacché “tessera dell’uomo totale…tensione verso una totalità assente, ma richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente“. Il simbolo in questa interpretazione è portatore di un significato profondo del quale diventa espressione.

Come sottolineato da U. Galimberti, Jung richiama Platone nel momento in cui, nella ricerca dei significati simbolici e nel tentativo di dare un senso al simbolo, sostiene che quest’ultimo va “dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia“. Jung, infatti, in Spirito e vita, scrive:  Un simbolo non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere.

E’ sulla concezione del simbolo uno dei maggiori contrasti tra Freud e Jung.

Per Freud i simboli sono una rappresentazione visiva e immaginaria attraverso la quale si esprime l’inconscio. Un’idea, una rappresentazione rimossa può tornare in vita attraverso il simbolo, soprattutto nei sogni. I simboli, come sostiene in Introduzione alla Psicoanalisi, precedono il linguaggio e, quindi, sono una forma di comunicazione primitiva che, seppure si esprime nell’ontogenesi, trova i suoi riscontri nella filogenesi. Infatti, egli scrive:  La relazione simbolica, mai insegnata al singolo ha i requisiti per venire considerata un’eredità filogenetica. Nelle successive fasi dello sviluppo i simboli tendono ad emergere come associati a idee rimosse, soprattutto, sul piano sessuale.

Jung, al contrario, sostiene che questi non sono simboli, ma semplici segni poiché vengono associati per l’appunto ad un vissuto di cui l’individuo ha avuto coscienza e che è stato rimosso. Il simbolo appartiene, invece, all’inconscio collettivo ovvero all’intero universo e non al singolo individuo. Non è un caso che egli concentri i suoi sforzi clinici sugli archetipi che nella sua teorizzazione rappresentano l’eredità trasmessa di immagini e forme virtuali formatisi nel corso dello sviluppo dell’umanità.

La croce che, in senso cristiano, rappresenta la sofferenza può essere un segno così come un simbolo archetipico. E’ un segno nel momento che la si associa con un episodio di sofferenza che è stato rimosso; è un simbolo archetipico se rappresenta il passaggio obbligato attraverso il quale ogni cristiano può raggiungere la salvezza.

Dopo tanta sofferenza arriva il momento dell’alleluia, il momento tanto agognato della resurrezione a cui pochi prima e dopo hanno creduto.  La vita, il cambiamento è sostenuto dalla fiducia e dalla speranza. Senza quest’ultimi il rischio è cadere nell’angoscia e nella depressione. E’ questo il significato profondo della pasqua. Il benessere è una conquista che passa attraverso la sofferenza dalla quale ci si può tirare fuori se è stata trasmessa dalle generazioni precedenti la speranza e la fiducia nel cambiamento. E’ questo il principio che contraddistingue ogni giorno il lavoro degli psicologi e di tanti operatori del sociale: avere speranza e fiducia nella resurrezione.

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia