“Millennials” e “Z”: generazioni a confronto

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia

N. 3 2023 pubblicato il 29.03.2023

Abstract

Generations “Y” and “Z” have lived through great changes that have followed the development of the media, first, and then of social media. The digital revolution accompanied by the end of post-modern culture has attempted to defeat the myths, symbols, and rituals that had characterized the mirror in which individual and collective behaviors found meaning for millennia. The breaking of the generational pact with the consequent absence of a story to be able to elaborate on identity construction has led to a continuous construction of the self based not on “who I am” but on “how I should appear”. In this framework, time and space have lost their meaning and the Other has become a container of rewards without being recognized in its true identity. The absence of otherness has created a void and given birth to new pathological forms linked to immediacy or to “everything now and immediately”.

Riassunto

Le generazioni “Y” e “Z” sono vissute all’interno di grandi cambiamenti che hanno seguito di pari passo lo sviluppo dei media, dapprima, e successivamente dei social media. La rivoluzione digitale accompagnata dalla fine della cultura post moderna ha tentato di sconfiggere i miti, i simboli e i rituali che avevano contraddistinto per millenni lo specchio in cui i comportamenti individuali e collettivi trovavano significazione. La rottura del patto generazionale con la conseguente assenza di una storia da poter elaborare ai fini della costruzione dell’identità, ha comportato una costruzione continua del sé basata non sul “chi sono” ma su “come devo apparire”. In questo quadro, il tempo e lo spazio hanno perso il loro significato e l’Altro è diventato un contenitore di ricompense senza essere riconosciuto nella sua vera identità. L’assenza dell’alterità ha creato un vuoto e fatto nascere nuove forme patologiche legate all’immediatezza ovvero al “tutto ora e subito”.

Generazioni digitali a confronto

Introduzione

L’identificazione delle generazioni attraverso lettere dell’alfabeto è piuttosto recente e segue di pari passo lo sviluppo, dapprima industriale e, successivamente, quello dei social media. Le ultime tre generazioni sono state distinte come Y, Z e alpha. La generazione Y o Millennials classifica i nati tra il 1981 e il 1996, come stabilito dal Pew Research Center nel 2018 (Dimock, 2019). Ciò ad indicare che essi sono cresciuti durante lo sviluppo dei social media. Il termine “Millennials” fu coniato per la prima volta da due storici, Neil Howe e William Strauss, autori nel 1991 del libro “Generations: The History of America’s Future, 1584 to 2069”, e affibbiato a questa generazione in quanto vicina alla conclusione degli studi all’inizio del nuovo millennio; all’interno dell’opera i due autori identificavano con questo termine tutte le persone nate tra il 1982 e il 2004, diversamente da quanto stabilito dal Pew Research Center.

La generazione Y è quella che ha vissuto un periodo di grandi contraddizioni e cambiamenti culturali, politici, sociali, economici, etc. Gli anni ’80, dopo le lotte del movimento studentesco del ’68 culminate negli anni ’70 con il terrorismo delle Brigate Rosse, sono stati un periodo di stabilità e di crescita sul piano economico in cui le possibilità di autorealizzazione sembravano semplici. Sono stati anche, però, un periodo di grande cambiamento e adattamento in quanto si sono visti i primi risultati della vittoria di grandi battaglie civili come il divorzio e l’aborto, e anche di una scuola più democratica che, dopo l’introduzione dei decreti delegati del 1974, andava affermandosi. Essa è stata le generazione che si è dovuta prendere sulle proprie spalle il peso del cambiamento, se per un attimo ci soffermiamo sulle famiglie separate, su quelle ricostruite con tutte le incertezze legate alle nuove sfide sociali e individuali che comportovano. In altre parole, essi sono stati le cavie di nuovi modelli familiari, sociali, scolastici che si portavano dietro non solo l’incertezza di una nuova sperimentazione ma, anche, le contraddizioni del vecchio sistema.

I passaggi generazionali sono da sempre stati contraddistinti dal trasmettere, tramandare e trasgredire. Si trasmette il nome e l’eredità di beni e di status, si tramanda la storia familiare e generazionale. Sulla trasmissione del nome gli anni ’80 presentano una rottura rispetto al passato: non più i nomi dei nonni paterni e materni in un preciso ordine cronologico, ma quelli di origine anglossassone che si andavano affermando attraverso le fiction che provenivano da oltre oceano. I personaggi delle fiction erano i nuovi eroi a cui riferirsi. Non è sicuramente un caso che quando i nati in questa generazione sono diventati adolescenti è scoppiato il fenomeno delle veline con lunghe file di mamme, papà e figlie ai provini che promettevano la gloria. Non è un caso che alla fine degli novanta sono nati una miriade di concorsi di bellezza accanto a quello storico di Miss Italia. Così come non è frutto del caso che la festività dei morti che in Sicilia, attraverso i regali lasciati dai parenti defunti, serviva a legare i vivi con morti è stata sostituita da Hallowen.

L’affermarsi, sul piano culturale, del post-modernismo sostenuto dal neo positivismo era teso ad abbattere, in nome di una presunta modernità, i miti, i simboli e i rituali del passato. Il processo di disgregazione della tradizione ferrea, permeata di rigidità e formalità, accelera e aumenta di intensità, come un aereo appena costruito che prende quota per raggiungere terre inesplorate, non sapendo se porterà i passeggeri a destinazione che, tra l’altro, metterà in crisi le certezze degli stessi Nexters (un altro dei nomi con cui viene definita la generazione Y) e delle generazioni successive.

In contemporanea si andava affermando un nuovo fenomeno come quello social con l’avvento di Facebook, Watshapp, Instagram, etc. che hanno cambiato non solo gli obiettivi individuali ma, soprattutto, le relazioni sociali: si poteva stare connessi e in relazione con gli altri standosene comodamente a casa. Ecco scattare la ricerca dei like come modalità di consenso e successo sociale che ha portato a veri e propri processi di “vetrinizzazione” (Pira, 2021). Inoltre, uno studio (Sridhar e Srinivasan, 2012) teso ad indagare le differenze generazionali, basandosi su dati quantitativi come il PIL e la crescita naturale della popolazione, indica la generazione Y come rivolta all’affermazione del proprio “io” e all’individualismo che diventa sempre più forte.

Sempre Srinivasan rileva che la successiva generazione Z è quella della crisi in cui le convinzioni vengono spazzate via, l’individualismo (seppur presente) è accompagnato gradualmente dall’esigenza diametralmente opposta di ritornare ad essere uniti. Sembrerebbe un paradosso ma la fase di crisi della generazione Z è legata al dissolvimento delle tante certezze che hanno accompagnato il positivismo di quella precedente, e si iniziano a piantare nuovi semi di molteplici opportunità nella speranza di veder fiorire una nuova e generale rinascita. D’altronde, anche sul piano culturale l’epoca della generazione Z segna la fine del post modernismo.

Mordacci (2017) al Festival della Filosofia di Modena a tal proposito afferma: “oggi bisogna provare a dare ordine al mondo, con la consapevolezza che è impossibile costruire una società perfetta, ma anche sapendo che abbiamo bisogno di criteri di giustizia e di verità per proporre un modo di vita accettabile basato su fatti e valori condivisi. Per questo la condizione contemporanea può essere definita una condizione neomoderna”. Ancora prima, Umberto Eco nel 2011 in un convegno che si è tenuto a New York dal titolo “postmoderno e neorealismo”, nello spiegare il suo realismo negativo, lo riassume nella seguente formula “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata”.

All’interno di questo contesto è stata elaborata la teoria della quarta svolta (Strauss e Howe, 1997) per la quale ad ogni crisi segue una fase di rinascita, di salita, di High anche se è necessario comprendere cosa caratterizza coloro che vivono questa criticità per riuscire a carpire le ripercussioni e gli atteggiamenti. La Generazione Z , a questo proposito, viene denominata con appellativi diversi come IGen (Twenge, 2006), Plurals e nativi digitali ad evidenziare l’influenza che il progresso tecnologico ha avuto, ha e continuerà ad avere sullo stile di vita delle persone e su ciò che loro desiderano. I vari appellativi stanno ad indicare che se Gen Y è stata la pioniera dell’utilizzo della tecnologia, la Generazione Z è immersa nel mare in tempesta della stessa, e le sue onde travolgono come un vortice il  presente concedendo un tempo troppo limitato per prendere fiato; la razza umana tende all’evoluzione, proiettandosi verso il futuro, ma in questa fase critica è il futuro che viene verso di noi, imponendo di stare al passo per prevedere la prossima, imprevedibile tempesta (Gabrielli et alt. 2019).

In riferimento alle suddette affermazioni,  le caratteristiche della Generazione Z possono essere così riassunti:

1. immersione nel mondo digitale sin dalla nascita; la tecnologia è passata dall’essere considerata come un mezzo per semplificare la vita delle persone all’aver creato veri e propri paradigmi entro i quali risulta sempre più indispensabile riuscire a vivere ed adattarsi;

2. affermazione della propria identità, la ricerca di un’occupazione o di passioni che rispecchino la propria personalità e la valorizzazione della diversità;

3. un alto livello di istruzione e sensibilità verso le tematiche relative alla sostenibilità ambientale (Ao et alt, 2020);

4. ricorso all’utilizzo più massiccio dei social media: una recente indagine di GlobalWebIndex rileva che il tempo trascorso dalla Gen Z nel 2018 sui social media è di circa 2 ore e 55 minuti al giorno, con un aumento del 18% rispetto lo scorso anno e maggiore rispetto alle altre generazioni messe a confronto (Baby Boomers, Gen X e Millenials), anche se l’aumento rilevante si registra fra il 2014 e il 2015 (+29%). I social network più utilizzati dagli Zers sono YouTube (89%), Facebook (77%) ed Instagram (74%); menzione speciale per l’utilizzo di WhatsApp (65%) in quanto si registra non solo un incremento da parte degli Zoomers dal 2016 al 2018 (+27%), ma anche e soprattutto da parte dei Boomers (+44%). La Gen Z non sfrutta i social network soltanto per creare e restare in contatto con le persone a livello globale, ma anche (ed è la conseguenza della ricerca del contatto) per cercare informazioni di vario genere, ad esempio su prodotti da acquistare e su imprese verso le quali si intende fare application. Sebbene il largo ricorso ai social media, la Gen Z si dimostra molto vigilante nel suo utilizzo (Haddouche e Salomone, 2018), specie se compromette le esperienze che l’individuo preferisce sperimentare dal vivo, denotando che l’esigenza di connettersi non è fine a sé stessa.

La clinica

La clinica si svolge all’interno di un contesto che ne definisce i contorni e, nello stesso, tempo, diventa matrice dei significati. L’agire umano, l’azione umana di se per sé non avrebbe un senso se non all’interno di un contenitore da cui trarre linfa vitale. I sintomi, i disturbi, le patologie si svolgono all’interno di un palcoscenico in cui dar corpo al conflitto, al contrasto psichico.

Le dinamiche sociali e culturali tipiche delle generazioni Y e Z producono nuove forme di patologia che sono contrassegnate dal bisogno di successo, di una forte affermazione dell’Io: è nel bisogno di visibilità insito nella cultura Social che si assiste ad una forte espansione del sentimento di sé, fino a diventare una forma di narcisismo che mette al centro dell’interesse il proprio Io e trascura l’Altro. Le relazioni si trasformano in amicizie virtuali che servono, non tanto ad un rapporto autentico. ma per affermare il proprio valore. Inoltre, l’eccessiva reperibilità elimina l’assenza che è una precondizione del simbolico: solo l’assenza determina il desiderio e la tensione verso il suo godimento.

E’ in questo quadro che Recalcati (2002) formula la definizione di “clinica del vuoto” poiché, senza l’assenza,  la presenza diventa apparenza che tende a riempire il sé di oggetti-ovatta e dei nuovi miti offerti dall’ipermodernità. Esplicativa, a tal proposito, è una pubblicità degli anni ‘90 di un noto dopo barba che recitava “per l’uomo che non deve chiedere mai”. Inseguire l’autosufficienza in cui l’altro diventa superfluo sconvolge due dei principi cardine dello sviluppo umano: il riconoscimento e l’appartenenza. 

Il riconoscimento prevede lo specchiarsi nell’altro: io mi riconosco nella misura in cui posso riconoscermi nell’altro in una continua reciprocità e circolarità. Allo stesso modo io posso appartenere solo nella misura appartengo all’altro e quest’ultimo appartiene a me. Il soggettivismo spinto che tende ad escludere l’oggetto è un precursore della patologia.

Al contrario, la Arendt (1978) sostiene che tutti gli esseri viventi “uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, ma sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti”. Allo stesso modo, Sarason (1974) rileva che farsi riconoscere porta a sentirsi appartenente ad una collettività stabilendo un sistema di rapporti e di interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari. Lo stesso autore rileva che questo sistema d’interdipendenza costituisce l’esito di un processo e deve essere volontariamente mantenuto. Ciò implica l’idea che il senso di comunità dipenda dagli investimenti individuali in funzione di uno scopo sovraordinato – il mantenimento di uno specifico sistema di rapporti – e dalla sua condivisione a livello collettivo. Tutti , ad esempio, si riconoscono nel loro paese, nella loro regione, nel loro stato. Non è un caso che differenziamo gli italiani dai tedeschi, gli austriaci dagli inglesi e così via. Ci riconosciamo all’interno di un contesto simbolico condiviso a cui sentiamo di appartenere. Il senso della patria, infatti, costituisce un processo di riconoscimento e sviluppa il senso di appartenenza. E’ un legame tanto forte quello che lega alla patria che, così come siamo disponibili a dare la vita per la nostra famiglia, per i nostri parenti, allo stesso modo la mettiamo al servizio della patria. Se viene meno il riconoscimento e il senso di appartenenza, ecco allora comparire negli anni ’80, come descritto dalla Cantarella (2023), il ritiro sociale: nel vuoto dell’assenza dell’Altro mi rinchiudo all’interno dell’unico luogo in cui mi riconosco e a cui mi sento di appartenere: “la mia stanza”.

L’acquisto dell’oggetto che mi permette di non chiedere mai, infatti, “può solo essere oggetto di godimento e mai di desiderio, strumento di isolamento e non occasione di incontro” (Recalcati, 2011).

Il vuoto dell’assenza dell’Altro porta a riempirsi e a rinchiudersi all’interno del corpo. L’anoressia, la bulimia, il binge eating disorder sono patologie tipiche di questa epoca storica. La ricerca dell’immagine perfetta e attraverso di essa del prestigio sociale sono metafora dell’illusione del mancato bisogno dell’alterità. Essi sono segni inequivocabile della paura del confronto con l’Altro: “Nella sua spinta compulsiva alla divorazione, la bulimica mastica e trita il vuoto, gode della bocca piena, eppure è la terribile sensazione di vuoto ad attenderla a fine abbuffata e al vuoto ritorna subito dopo proprio come un elastico che scatta indietro: cerca tenacemente di ripristinarlo, vuole ritrovare la presenza rassicurante delle ossa” (Recalcati, 2011).

Il corpo come fonte di pericolo: è attraverso il corpo che mi difendo dalla relazione con l’altro. Spesso dietro la bulimia si nascondono tracce di molestie o violenze sessuali subite che creano un vuoto anche di memoria in chi li ha subiti. E’ il voler annullare l’Altro attraverso il rinchiudersi all’interno dei propri confini corporei che evita il confronto e fa scontare la colpa di possedere un corpo che attrae. E’ la paura, l’angoscia del confronto con altri corpi che riempie il vuoto attraverso l’ingurgitare a dismisura il cibo nel binge eating disorder. E’ la pretesa autarchica della ricerca del vuoto che esprime una voglia di indipendenza assoluta che sostiene l’anoressia.

L’assenza dell’altro, il vuoto è possibile coglierlo, inoltre, in nuove forme patologiche o nella rivisitazione delle vecchie attraverso la “patologia dell’immediatezza” (Kimura, 2005) che è il principio che determina la forma delle relazioni sociali nella contemporaneità. Cosi come da tempo ha ben compreso la sociologia, soprattutto attraverso le teorie di Baumann, il passaggio dalla società della comunicazione a quella dei social e delle iperconnessioni ha comportato la modificazione del principio di velocità in un nuovo imperativo: la necessità dell’immediatezza.

In una società il cui tratto distintivo è diventata l’estetica, la ricerca della bellezza a tutti i costi, Baumann (2008) ha descritto la relazione tra l’Io e l’Altro come una fornitura di beni e servizi del secondo nei confronti del primo. L’Io non ricerca l’Altro nella sua essenza ed autenticità ma, semplicemente, per soddisfare le sue esigenze. Come messo in luce da Muscelli (2014), non si è alla ricerca di una conoscenza approfondita dell’Altro, ma l’interesse è esclusivamente estetico in cui l’altro è “da assaggiare e sentire” come se fosse un gelato e/o un dolce. Nella relazione di immediatezza l’altro non è il partner con cui dialogare, a cui rendere conto, di cui sentirsi responsabile, verso cui vergognarsi.

Ciò ha comportato l’espandersi delle personalità bordeline che oggi sono una vera e propria epidemia psicopatologica. “La presenza dell’altro si è disciolta e smaterializzata nella “rete” così come nell’intimo del dialogo interiore; l’identità narrativa ha perduto la continuità del tempo esplicito, quello che deriva dall’efficacia del dialogo interiore. Non è per caso che la “patologia del presente” (Rossi Monti, 2012) si configuri tipicamente come senso di assenza, di vuoto, di noia, e di bisogno inesaudibile – e mai come rimorso, rimpianto, nostalgia, pentimento; o, viceversa, come attesa messianica, ideale fissato, utopia” (Muscelli, 2014).

E’ nei nuovi vissuti spazio-temporali e nella corporeità che la patologia dell’immediatezza trova i suoi riscontri che, nella relazione con l’altro, sempre Muscelli, individua: “nella telepresenza, nella la possibilità di essere presenti a distanza, nell’istantaneità, cioè la capacità di riduzione dei tempi alla dimensione puntuale dell’istante, e nella coscienza pornografica, una coscienza di sé che è svincolata dalle narrative di lunga durata ma che dipende esclusivamente dalla visibilità e dal godimento del corpo”.

E’ lungo questo asse che si è consumata la rottura con le generazioni precedenti vivendo in una sorta di ipertrofia del presente. Infatti, rapportarsi alle generazioni precedenti, affondare all’interno delle proprie origini comporta un tempo lungo che non corrisponde a quello dell’immediatezza. I tempi psichici dovendo seguire quelli delle nuove tecnologie si sono ridotti non riuscendo a sopportare l’attesa di una lunga elaborazione per cui è venuto meno l’impegno di programmare l’azione presente e futura attraverso la lettura della storia passata. Ciò di fatto ha ridotto le responsabilità che si assumono con le generazioni precedenti: se non avverto la responsabilità verso la storia familiare e generazionale, non avverto neanche il senso di colpa e la vergogna, insomma mi sento libero da impegni futuri proiettando la mia azione solo sul qui ed ora.

Ecco perché vengono meno i desideri e si risponde solo ai bisogni. Cambia, come sostenuto da  Maffesoli (2003), anche l’etica del riconoscimento anch’esso sottoposto alla fugacità dell’incontro con l’altro che è contraddistinto dalla ricerca del superfluo, il carpe diem, la cultura del piacere, l’attenzione al corpo e al fitness, i rave party, la New Age. Tutti fenomeni che non hanno un futuro, non si situano nel senso della storia e sono del tutto indifferenti a ogni finalità e che esprimono l’idea che il presente basta a se stesso. E’ in questo presente che il riconoscimento oggi avviene attraverso la partecipazione momentanea senza nessuna finalità futura e si esprime attraverso la presenza continua sugli strumenti digitali ovvero sull’essere continuamente iperconnessi.

Senza una storia in cui riconoscersi è venuto meno il trasgredire inteso come elaborazione delle proprie origini per rilanciare l’azione generativa e le uniche trasgressioni possibili sono la riproduzione di quelle vissute attraverso i video giochi o la realtà digitali. La storia generazionale, infatti, non solo protegge dalle intemperie della vita, ma allo stesso tempo, costituisce, in senso lacaniano, il “luogo dell’ altro” nel quale possiamo riconoscerci. L’assenza di modelli con cui identificarsi espone i ragazzi al non appartenere, al non riconoscere il valore della “legge”, ovvero degli obblighi morali a cui è sottoposto il “desiderio”: “Il consumismo tecnologico tende a tarsfromarci in individui senza storia e identità” (Baumann, 2003).

La mancanza di modelli identificativi espone sopratutto i ragazzi ad una mancata rielaborazione delle proprie origini, portandoli alla riproposizione tante volte di modelli violenti. Il bisogno di riconoscimento porta al bullismo, al cyber bullismo, al sexting, al revenge porn, al cutting (Pira, 2021)  e alle nuove forme di violenza adolescenziale.

La patologia dell’immediatezza non solo ha fatto emergere nuove patologie ma ha, anche, cambiato le modalità di espressione delle vecchie. Ad esempio, la depressione è passata da un modello espressivo bastato sulla perdita ad uno sulla noia. Se le vecchie forme depressive erano legate alla colpa e alla vulnerabilità, a partire degli anni ’80 si sono nevrotizzate e sono legate all’istantaneità. Non più il rammarico, l’angoscia per un evento passato che ha procurato un danno irrimediabile difficile da riparare, ma la difficoltà di un godimento nel qui ed ora in grado di attenuare il vuoto e la noia (Stanghellini, 2011).

Conclusioni

L’azione, l’agire deve essere incorniciato all’interno di uno spazio e di un tempo che nel delimitarne i contorni , nello stesso tempo, gli da significazione. Il tempo per sua natura è storicizzato presupponendo un prima e un dopo anche quando si esplica nel presente. Con Sant’Agostino sappiamo che il passato vive nel presente attraverso il ricordo cosi come il futuro costituisce la proiezione dell’azione presente. Nel momento in cui la storia passata viene meno attraverso la rottura con le generazioni precedenti risulta complicato poter programmare l’azione futura. E’ il momento della sospensione, non solo del tempo, ma anche dell’identità che deve necessariamente contenere una storia per poter progettare il cambiamento futuro. Quest’ultimo presuppone un contrasto, un conflitto che deve essere elaborato tra vissuti presenti e passati. In assenza, l’identità diventa instabile e continuamente mutevole poiché sottoposta solo all’immediato, all’istantaneità. E’ in queste condizioni che sorge la patologia dell’istantaneità che si fonda su un vuoto legato all’assenza dell’alterità storica. La rottura tra le generazioni produce un vuoto incolmabile poiché non permette di riconoscersi e appartenere ad una storia condivisa. La clinica dei corpi familiari, così come concepita da Cigoli (2012), che si esplica attraverso l’eticità dello scambio di doni, basato sulla fiducia e speranza di poter essere ricambiati, risulterebbe amputata dal vuoto, dall’assenza di una storia con cui potersi confrontare. D’altronde Lacan aveva già ammonito che in assenza del luogo “Altro”, ad esempio quello in “Nome del Padre”, si produce un cratere per cui risultera complicato mettere uno psicotico sul lettino dell’analista. Nel vuoto, nell’assenza dell’alterità vengono a mancare i capisaldi del legame ovvero la giustizia, da un lato, e la fiducia e la speranza, dall’altro. Senza quest’ultimi, il desiderio tende al godimento immediato senza tener conto della legge: con Freud diremmo che viene meno il principio di realtà e il meccanismo di funzionamento dell’apparato psichico sarebbe sostenuto dal principio di piacere.

La rivoluzione digitale, accompagnata da un clima culturale favorevole, ha investito in pieno le generazioni Y e Z trasformando il tempo in un eterno connettersi, cancellando i luoghi di appartenenza permettendo di vivere contemporaneamente in molteplici luoghi e contesti, ha fatto si che venissero meno l’appartenenza e il riconoscimento. Se non mi riconosco e non appartengo ho bisogno di costruire continuamente la mia identità per adattarla alla molteplicità delle connessioni. Lo stesso concetto di identità sembrerebbe superato come appartenente ad una cultura stanziale al fine di costruire una nuova definizione di sé basata non tanto sul “chi sono”, ma su “cosa voglio sembrare”. Il continuo sforzo di costruzione del sé per adattarlo alla molteplicità delle connessioni sta alla base della personalità di tipo bordeline. Da questo tentativo non è esente la costruzione del corpo attraverso i processi di vetrinizzazione dell’Io o con l’instaurarsi dei disturbi alimentari. Per sfuggire all’ineluttabilità di questa realtà l’unica via è la fuga di tipo psicotico presente nel ritiro sociale.

La clinica, i percorsi di cura oggi devono utilizzare nuovi linguaggi, ma soprattutto devono rispondere alle esigenze di immediatezza trovando nuovi modelli e nuove risposte senza stravolgere i presupposti fondamentali del setting terapeutico. La relazione terapeutica può costituire il modello di nuovi percorsi di alterità in cui dare senso al legame e a riconoscere l’Altro per riconoscersi  nella  vera autenticità.

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