Le ferite delle donne

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale.

Abstract

Diversi sono i sentimenti tipicamente femminili che sono sempre stati considerati dalle donne stesse elementi della loro fragilità, e causa ed insieme conseguenze delle loro “ferite”. Questi vissuti rappresentano il rovescio di altri sentimenti che fondano la ricchezza del mondo emotivo femminile e sono fonte di gratificazione per le donne e motivo di gratitudine per chi sta loro vicino:

il “senso di inferiorità” trova un contraltare nell’umiltà e nel sapere ascoltare le ragioni dell’altro; il “senso di colpa” nella dedizione e nella capacità di amare al di là del giudizio; la “dipendenza” dalle relazioni con gli altri nella sensibilità verso il mondo degli affetti e nella ricerca di mediazioni e risoluzioni non violente dei conflitti.

Può anche darsi però che nel difendersi dalla fragilità rifiutando gli aspetti più tradizionali della femminilità le donne si privino della loro sensibilità emotiva, perdano il rapporto con la propria affettività e neghino, soffrendone, alcuni loro bisogni; è questo uno dei rischi che corrono oggi, forse il principale.

Mentre le donne hanno fatto molto negli ultimi decenni per prendere parte attiva alle dinamiche sociali da sempre prerogativa maschile, molto resta loro da fare per raggiungere un’“autentica parità” che non sia soltanto comportamentale, ma investa i livelli più profondi dell’identità. Proprio per potersi inserire in contesti costruiti ed abitati dagli uomini, le donne hanno dovuto intraprendere un “processo di maschilizzazione”; processo che rischia di diventare l’ennesima dimostrazione della sempre supposta superiorità dei valori e degli atteggiamenti maschili se, insieme, non si sviluppa la percezione profonda dell’importanza di certe modalità femminili, se non si recupera il senso di appartenenza al proprio genere nella consapevolezza del suo valore.

Se le donne hanno dovuto in parte negare la loro femminilità è stato non tanto per un rifiuto della femminilità in sé, quanto perché a lungo essa ha coinciso con una “condizione di sottomissione” al potere maschile. Le donne hanno scelto di rinunciare ad una parte di sé in cambio di una maggiore libertà, di una condizione di potere più paritaria.

Se potessero garantirsi questa condizione come un “diritto a priori” probabilmente sarebbero diverse, e di certo si sentirebbero più libere di manifestare anche gli aspetti più femminili della loro personalità, senza la paura di essere per questo sopraffatte (Arcidiacono, 1991).

Ciò significa raggiungere la consapevolezza del significato umano delle qualità sentimentali femminili e del loro valore, non inferiore a quello delle qualità maschili.

Questo sarà possibile quando non soltanto le donne, ma anche gli uomini, riconosceranno “l’importanza delle componenti femminili dentro e fuori di sé”, non perché esse diano loro modo di esercitare un potere, ma perché rappresentano l’unica strada per mantenere vivo il rapporto con il proprio mondo interiore, le emozioni e l’affettività (Neumann, 1975).

In questo senso un primo passo verso una “nuova identità femminile” è quello non solo di accettare, ma di trattare con benevolenza i propri sentimenti, anche quando generano sofferenza, nella consapevolezza che essi racchiudono una componente “positiva” e fanno parte della capacità del modo di amare delle donne.

8 Marzo, “Le ferite delle donne”

Introduzione

Dopo un lungo percorso di emancipazione -per certi versi ancora in atto- oggi le donne appaiono educate all’autonomia e alla parità con gli uomini, realizzate nel lavoro, capaci di manifestare senza timidezza le loro opinioni;

eppure la maggior parte di loro nasconde un “profondo senso di insicurezza ed inadeguatezza” che spesso riescono a sottrarre persino al proprio sguardo, relegandolo in un angolo remoto della personalità.

Ciononostante questo sentimento si insinua in ogni ambito dell’esistenza, quasi una voce che sussurri: “Sei riuscita a raggiungere il tuo obiettivo, ma è stato solo un caso, il ruolo che occupi non è il tuo, non sei capace non sei all’altezza”, e funziona come un freno, un ostacolo che deve essere costantemente superato, un sospetto da fugare affrontando sempre nuove prove (Vegetti Finzi, 1992).

Così le energie e la passione con cui le donne lottano ancora oggi per l’“autoaffermazione” finiscono per convogliarsi, oltre che verso il mondo, soprattutto verso la parte di sé che dubita, disconosce, sottovaluta, mortifica la capacità e la possibilità di riuscire; con l’effetto di trasformare spontaneità e creatività in uno “sforzo di volontà”, in un “atto dimostrativo” in primis verso loro stesse, ancor prima che verso il mondo.

“Quando esprimersi diventa una prova, il successo non può mai appagare del tutto: è sempre una gratificazione parziale, simile a quella di chi, vinto un round, già si preoccupa del successivo. Il senso di insicurezza non si placa nemmeno dopo un gran numero di prove e si accompagna ad un’insoddisfazione diffusa”(ibidem).

D’altra parte il senso di inadeguatezza non è un problema soltanto femminile, ma è tra le principali fonti di malessere del nostro tempo per entrambi i sessi, costantemente incalzati dall’esigenza di essere all’altezza della complessità, della specializzazione e della precarietà che caratterizzano la nostra vita.

Ma per le donne l’inadeguatezza è un problema ancora più profondo: oltre a dover rincorrere gli ideali narcisistici di perfezione e onnipotenza caratteristici del nostro tempo, conservano infatti dentro di sé le “ferite” del passato, di una cultura che per secoli ha svalutato il femminile. A questo si aggiungano altre insicurezze e altri dubbi, retaggio di un passato recente, e cioè della lotta femminista contro la cultura misogina. Almeno all’inizio, quella lotta costrinse a misconoscere tutta una serie di aspetti della femminilità che sembravano relegare la donna in un ruolo subalterno.

Queste “ferite” sono state e sono fonte di dolore solo all’interno di una logica in cui esiste un nemico che ha facoltà di infliggerle: una logica in cui la vulnerabilità femminile viene utilizzata dagli uomini per esercitare, ancora oggi, il loro potere.

“Ma le ferite possono essere viste anche come porte, accessi al mondo interiore, occasioni per svelarne i disegni nascosti ed isolare cosí la forza e la ricchezza intrinseche delle donne” (Bettelheim, 1996)

Considerazioni

Le prime donne che si sono apertamente contrapposte al potere maschile sono dovute passare attraverso il rifiuto non solo dei ruoli che tradizionalmente ricoprivano, ma anche di alcuni aspetti della loro personalità.

Rigettando il modello naturale di identificazione femminile -la madre- hanno individuato come unico modello alternativo quello “maschile”:

identificarsi con il “padre” significava acquisire le capacità -per lui così naturali- di rapportarsi alla sfera pubblica, al mondo del lavoro, della politica, della cultura e di adottarne le modalità e gli atteggiamenti (Mitchell, 1996).

A differenza del passato, quando avevano cercato la mediazione, la comprensione e la compassione spesso mettendo a tacere i loro bisogni ed interessi, in tempi recenti le donne hanno cercato il “conflitto”: non sono rimaste estranee né alla competizione aperta, né all’arroganza, né alla prevaricazione, né al perseguimento ostinato degli obiettivi, anche a scapito delle relazioni.

É stato questo purtroppo il prezzo da pagare per lo “snaturamento” insito nell’identificazione col maschile; accanto ad uno stato di spaesamento che da un lato è derivato dalla maggiore libertà di espressione e dal proliferare degli innumerevoli ruoli a cui hanno potuto accedere, e dall’altro della difficoltà di capire quali fossero i loro reali bisogni.

La molteplicità di ruoli ha scatenato, infatti, allo stesso tempo, svariate contraddizioni: molte donne, ancora oggi, vivono da un lato la gratificazione ed il senso di pienezza che nascono dalla possibilità di realizzarsi sia nella vita pubblica che in quella privata, dall’altro il disagio di non sentirsi all’altezza della perfezione che viene loro richiesta in ambiti così diversi e spesso in conflitto tra loro.

“Solo una valorizzazione delle differenze tipiche del femminile e lo sviluppo di modalità che gli sono proprie, rappresentano la reale affermazione della donna ed un percorso di una autentica parità fra i sessi” (ibidem).

Bisogna che le donne rivendichino la loro “specificità” andando, ancora una volta, al di là di tutti quei discorsi che, affermando l’immutabilità biologica di alcune caratteristiche come la passività o l’arrendevolezza, finiscono per accreditare una supposta inferiorità della donna. (Si è dovuto attendere il femminismo e le scoperte dell’antropologia sulla relatività culturale di ruoli e comportamenti sessuali, per iniziare a mettere in discussione il carattere immutabile di alcuni tratti tipici della donna, considerandoli piuttosto il risultato di condizionamenti sociali e culturali).

Solo con l’adozione di una logica di “valorizzazione delle differenze” è possibile puntare su caratteristiche e modalità specificamente femminili che possano fungere da punti di riferimento, diventando elementi stabili in cui riconoscersi e da cui partire per costruire un’identità consapevole.

Le difficoltà che si incontrano in questo senso sono dovute prevalentemente ad una scarsa conoscenza da parte delle donne dei propri stessi sentimenti, delle proprie difficoltà, desideri, paure ed aspirazioni e all’incapacità di comunicarli tanto alle altre donne quanto agli uomini.

Ecco perché appare fondamentale “mettere in atto un dialogo continuo con la propria interiorità, prendere contatto con la propria realtà piú profonda, godere della propria specificità e ricchezza da una posizione ben diversa da quella del passato, affermandone con forza il valore” (Baker Miller, 1976).

Anche nei casi in cui le donne hanno pari opportunità rispetto agli uomini e uno stile di vita analogo, permangono comunque delle sostanziali diversità più che negli atteggiamenti esteriori nel modo di sentire e vivere l’esperienza; ed è proprio questa diversità di vissuti che delinea le differenze nell’approcciarsi alla vita e agli altri.

“Conoscere sempre meglio le emozioni più frequenti nella psicologia femminile è molto importante in quanto in esse si cela spesso un disagio ma anche una grande ricchezza di sentimento. Ed è proprio attraverso questa conoscenza che è possibile superare quel disagio, assumendosi il carico della ferita, facendola propria per poterne poi valorizzare le potenzialità” (Slepoj, 2002).

Simbolicamente, infatti, la ferita non rappresenta soltanto il segno di un dolore o di una fragilità ma, ambivalente come tutti i simboli, anche un punto di forza: da sempre associata in tutte le culture al menarca e al sangue mestruale anche in questo caso viene intesa nel suo “duplice valore” di impurità, debolezza e malattia da un lato, potere magico e forza generatrice dell’altro.

  • Una delle ferite principali con la quale molte donne ancora oggi si trovano a fare i conti è il proprio “senso di inferiorità”; un’inferiorità intellettuale, morale e persino umana.

Lo stesso Freud, a partire dal concetto di invidia del pene, ha dipinto le donne come delle “figure mancanti”, costrette dalla loro debolezza a usare strumenti sotterranei come la manipolazione, la seduzione e l’aggressività passiva per ottenere considerazione (Freud, 1979).

Il disprezzo di certi uomini per la donna deriva, in fondo, dalla profonda paura di rimanere “invischiati” nella dipendenza dalla madre, inconsciamente vissuta come onnipotente. A questo proposito nella psicologia maschile, non di rado, ricorre una figura femminile terrorizzante ed estremamente potente, che non aspetta altro che irretire l’uomo, manipolarlo, approfittarsi di lui: da quella trappola in cui può cadere per amore o per debolezza della carne l’uomo deve difendersi con tutte le forze, per mantenere intatta la propria soggettività.

Ciò che si può affermare è che è cambiato il modo in cui le donne si rapportano nei confronti del loro senso di inferiorità: in passato, identificandosi con il paradigma maschile che le dipingeva come esseri di poco valore, il senso di inferiorità era “egosintonico”, cioè tutt’uno con l’identità e la coscienza di sé della donna, che considerava la sua subordinazione come un dato di realtà, una condizione normale; oggi, avendo sul piano cosciente un’immagine di sé più elevata, le donne si pongono “in conflitto” con il proprio senso di inferiorità cercando di negarlo, di superarlo, di trasformarlo anche se esso spesso agisce in modo inconscio, condizionando i loro comportamenti.

  • Un’altra importante ferita è rappresentata dal “senso di ingiustizia”, sentimento abbastanza nuovo che sembra affiorare solo recentemente nella psicologia femminile, in concomitanza con alcuni mutamenti culturali avvenuti negli ultimi anni, parallelamente ad una diversa visione da parte delle donne del loro ruolo e del loro valore all’interno della società.

Visione che le ha portate a percepire come scorretti o addirittura inaccettabili situazioni e comportamenti che in passato erano ritenuti normali.

Questo mutamento ha coinvolto sia l’ambito sociale e lavorativo, dove gli atteggiamenti di discriminazione e di molestia vengono meglio riconosciuti e sempre meno tollerati, sia la sfera del privato dove le tradizionali regole che sancivano i ruoli di potere e la divisione dei compiti sono state messe in discussione.

Tutto ciò ha prodotto un aumento dei motivi di scontento ed un innalzamento dell’aggressività come reazione nei confronti di quelle situazioni in cui la donna non si sente rispettata nel suo “nuovo ruolo” (Arcidiacono, 1991).

  • In risposta a ciò è stato possibile riscontrare una tendenza anch’essa recente, da cui è nato un nuovo sentimento della donna: il “bisogno della propria realizzazione” in termini lavorativi, professionali o semplicemente nella sfera degli interessi personali; realizzazione che in molti casi viene vissuta come prioritaria rispetto a quella affettiva. Una componente fondamentale di questa tendenza è senza dubbio il raggiungimento dell’autonomia economica, indispensabile per l’acquisizione di libertà e potere decisionale.

Ma nella realizzazione professionale si manifestano anche altri desideri: quello di esprimere sè stesse, di rendere concrete le proprie potenzialità, di misurarsi con capacità e limiti personali. Mettersi alla prova nei confronti di una dimensione sociale che vada oltre la sfera del privato -unico campo d’azione femminile fino a pochi decenni fá- è una necessità che gran parte delle donne ormai giudica elemento imprescindibile per la formazione della propria identità, ed indispensabile per la propria autostima: unica strada per costruire relazioni paritarie non soltanto con gli individui dell’altro sesso, ma anche con quelli del proprio.

Ma il lavoro produttivo femminile è sempre stato considerato, soprattutto nei primi periodi del percorso di emancipazione, quasi “innaturale”, e perciò misconosciuto ed orientato verso mansioni ritenute secondarie (ibidem). Per moltissimo tempo si è ritenuto che la funzione prevalente della donna dovesse essere quella “riproduttiva”; ecco perché il suo accesso al mercato del lavoro ha dovuto confrontarsi con un problema di fondo: quello della cosiddetta “doppia presenza”, nella famiglia e nel posto di lavoro; una ferita che ancora oggi brucia perché, anche se nel corso del tempo è diminuito il divario di genere nella partecipazione al lavoro, restano ancora significative differenziazioni tra uomini e donne.

Questo problema ha obbligato la donna a trovare, con non poca fatica e difficoltà, accorgimenti per conciliare il lavoro extra-domestico con la cura della famiglia, che ha pesato e continua a pesare comunque sulle sue spalle. “Il difficile aggiustamento tra il ruolo di donna madre e moglie e quello di donna lavoratrice ha rappresentato il principale ostacolo alla totale parità di condizioni lavorative tra uomo e donna” (Delumeau, 1978).

Nonostante gli innegabili passi in avanti, i più significativi freni al lavoro delle donne continuano ad essere soprattutto di tipo  “culturale”. Purtroppo, in diverse realtà, permangono ancora delle resistenze ad una divisione dei compiti all’interno della famiglia ed antichi schemi finiscono spesso per riprendere il sopravvento. Ad esempio, il timore di una perdita di virilità dell’uomo dedito alle faccende domestiche è tutt’ora presente soprattutto nei paesi latini.

Ma il maggiore impedimento all’integrazione paritaria nel mercato del lavoro resta il “senso di colpa” che nasce nella donna dalla difficoltà di seguire la crescita dei figli. Questo elemento viene rafforzato dall’insufficienza delle strutture sociali che, per di più, non prevedono una flessibilità di orario adeguata alla maggiore differenziazione negli orari di lavoro. Mentre un’altra importante voce che incide sulla presenza della donna nei luoghi di lavoro è la gestione e la cura della malattia soprattutto degli anziani (genitori, parenti stretti…): recenti ricerche hanno messo in luce che “le donne considerano questo compito un dovere familiare e sociale, e lo adempiono convinte di essere insostituibili in questa incombenza” (Arcidiacono, 1991).

In Italia la famiglia continua ad essere vista da molte forze politiche come il “principale ammortizzatore sociale”, e si insiste a vedere nella donna la principale responsabile della cura dei bambini e degli anziani. Di conseguenza, nel corso del tempo, si è tralasciato di attivare tutti quei servizi destinati alla gestione sociale collettiva di questi problemi, preferendo semmai dare contributi a chi ne ha più bisogno. Ovviamente, in tutto ciò, è stata ignorata la propensione della donna ad affermarsi nella sfera lavorativa e si è data per scontata la sua vocazione prioritaria alla cura.

La centralità assunta del lavoro nella vita delle donne si accompagna dunque al “permanere di difficoltà nel conciliare ruoli esterni ed interni alla famiglia”. I cambiamenti culturali sono lenti e le politiche del lavoro e della famiglia restano ancora insufficienti. “Finché la donna sarà lasciata sola nella costruzione di nuovi equilibri e la società intera non si impegnerà nella riduzione delle asimmetrie, la disuguaglianza di genere del lavoro continuerà a rappresentare un problema” (ibidem).

Conclusioni

La donna ha da sempre incarnato la sfera dei sentimenti, dell’amore e della tenerezza. Il suo ruolo di madre, la sua passività e ricettività l’hanno tradizionalmente collocata nel campo dell’affettività e dell’emotività, contrapposto alla razionalità maschile. “Nel momento in cui l’uomo diventa il depositario della razionalità, la donna si trasforma nella sua antitesi, nell’emblema dell’oscuro, dell’irrazionale dell’istintivo, portatrice di un’indistinta minacciosità da tenere costantemente a bada con un sistema di regole e pratiche sociali capaci di garantirne l’emarginazione, o almeno di contenere la forza eversiva che le deriva soprattutto al suo essere madre, e quindi “matrice”” (Slepoj, 2002).

Le difficoltà in cui si è battuto il processo di emancipazione femminile sono riconducibili proprio a questo “vizio” di partenza, a questa subalternità congenita, considerata naturale.

-Com’era possibile per la donna uscire da un’inferiorità così originaria e definitiva, iscritta nel linguaggio, nel pensiero, nel codice genetico della civiltà.. di tutte le civiltà?

-Com’era possibile, all’interno del monopolio maschile del discorso che dettava le regole non solo dell’agire ma anche e soprattutto dell’essere, individuare la “vera natura” della donna, distinguere la rappresentazione indotta dall’identità reale e trasformarla in forza?

..Così le donne hanno dovuto costantemente cercare “meccanismi di compensazione” capaci di ridurre lo stato di subalternità, facendo della loro supposta essenza irrazionale e naturale un punto di forza, utilizzando principalmente le armi della seduzione della maternità; armi però decisamente a “doppio taglio”, nell’utilizzo delle quali le donne hanno dovuto sempre giocare di rimessa, adattandosi faticosamente alle condizioni politiche, sociali, economiche ed ideologiche del loro tempo, tentando di ricavarsi spazi più o meno ampi se non di potere almeno di vivibilità, con la saggezza, l’astuzia, la forza, la dolcezza secondo le circostanze o le inclinazioni individuali.

“Queste pratiche adattive hanno però lasciato per moltissimo tempo e fondamentalmente invariata la struttura di potere, confermando nella sostanza la “condizione subalterna” di partenza, ed anzi generando inevitabilmente sentimenti di inadeguatezza, di precarietà e quindi situazioni di frustrazione e di stress” (Vegetti Finzi, 1992).

Ecco allora farsi strada l’esigenza di un approccio più radicale, capace di rimettere in discussione il ruolo sociale della donna o meglio la sua stessa identità. É quello che hanno tentato di fare molte donne e molti movimenti femministi che hanno combattuto contro la mentalità prevalente, contro le condizioni economiche e sociali dominanti, contro i limiti imposti dall’immaginario maschile;

ma anche per valorizzare la propria irriducibile diversità, per diventare titolari di diritti, per rifondare un ordine del discorso che riconoscesse alla donna una “identità autonoma” e quindi non derivata.

E in questa dialettica tra il “lottare contro” ed il “lottare per” che si gioca ancora oggi il processo di emancipazione femminile, caratterizzato dal confronto tra due posizioni contrapposte: da una parte la lotta per il riconoscimento della “parità tra i sessi” (una richiesta, una concessione che viene negoziata con la controparte), dall’altra la lotta per l’affermazione della “differenza tra i sessi” (un atto autonomo che si impone in modo unilaterale, lasciando la controparte l’onere di adeguarsi).

“La scelta, insomma, è tra l’emulare il maschile al fine di dimostrare la capacità della donna di fare tutto ciò che è stato considerato di pertinenza dell’uomo, e l’affermare la specificità dell’identità femminile al fine di valorizzare i caratteri propri ed irriducibili della donna, e trasformarli in punti di forza cercando di depurarli dalle attribuzioni imposte dall’esterno” (ibidem).

Ecco che allora ripercorrere la storia delle diverse rappresentazioni della donna all’interno delle società e della famiglia, risulta fondamentale per capire la genesi della condizione di subalternità e le ragioni di questa “ferita originaria”, cercando di metterne in discussione la supposta fatalità.

“Poiché la donna è stata a lungo lo sguardo che su di lei hanno posato gli uomini, per poter comprendere realmente e profondamente la sua storia occorre cercare di decodificare i sistemi di valori, di immagini e di rappresentazioni che ne hanno definito nel corso del tempo i ruoli sociali e che le hanno imposto i comportamenti quotidiani” (Slepoj, 2002).

Un universo complicato, dove pulsioni profonde e soggettive si mescolano alle memorie ataviche della storia, che per secoli ha identificato la donna con la procreazione, relegandola nella sfera del materiale, dell’istintivo, dell’oscuro: incarnazione del peccato, tentatrice, strega; oppure l’ha proiettata lontano, oltre il suo corpo: Madonna, angelo, musa. Mai semplice individuo.

Dopo secoli di lotte anche nei paesi più evoluti del Terzo millennio essere donna significa, ancora oggi, fare i conti con pregiudizi ed abitudini, lottare per ritagliarsi un’identità ben definita.

Solo analizzando i modi ed i motivi della sofferenza femminile nelle sottili convergenze fra ragioni biologiche, psicologiche, sociali e culturali si potrà affondare nel mondo interiore delle donne, seguendo il varco aperto delle loro ferite per scoprire che la fragilità è, in fondo, l’altra faccia di una sensibilità più accentuata, la seduzione ed il narcisismo nascondono un bisogno di conferme, la paura di essere abbandonate deriva da una condizione storica di sottomissione e dipendenza…

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Bibliografia e Sitografia:

AA. VV., “Esistere come donna”, Rivista di Psicologia Analitica, Venezia, 1977; 

Arcidiacono C. “Identità, genere, differenza”, Angeli, Milano 1991; 

Beauvoir S.de, “Il secondo sesso”, Il Saggiatore, Milano 1984; 

Bettelheim B., “Le ferite simboliche”, Bompiani, Milano 1996; 

Baker Miller J., “Le donne e la psicoanalisi”, Boringhieri, Torino 1976; 

Delumeau J., “La paura in occidente”, Sei, Torino, 1978; 

Freud S., “Sessualità femminile” in Opere, vol 11, Boringhieri, Torino 1979; 

Hornet K., “Psicologia femminile”, Armando, Roma 1967; 

Leonard L. S., “La donna ferita”, Astrolabio, Roma 1985; 

Mitchell J., “Psicoanalisi e femminismo”, Einaudi, Torino 1976; 

Neumann E., “La psicologia del femminile “, Astrolabio, Roma 1975 

Slepoj V., “Le ferite delle donne”, Arnoldo, Milano 2002; 

Vegetti Finzi S., “Psicoanalisi al femminile”, Laterza, Roma-Bari 1992.

Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, in formazione presso Scuola di Psicoterapia ad orientamento Sistemico-Relazionale,