Cos’è La Mistica

Cos'è la Mistica

Recensione del libro di Mons. Antonino Raspanti – Vescovi di Acireale – Vice Presidente CEI

a cura del Prof. Mariano Indelicato – Psicologo Psicoterapeuta – Docente a.c. Psicometria delle Neuroscienze Cognitive – Università degli Studi di Messina

Mistica

Introduzione

Ci sono rivelazioni che avvengono all’improvviso, come se quasi magicamente si accendessero le luci della ribalta e tutto viene illuminato e splendesse sotto una luce diversa facendo assumere agli stessi oggetti forme e colori del tutto nuovi. Sartre sosteneva, criticando la psicologia scientifica la quale aveva la presunzione di analizzare e spiegare  i fatti e le manifestazioni psichiche con il metodo proprio delle scienze naturali, che gli oggetti sono il prodotto della coscienza che gli da significazione e ne definisce i contorni, addirittura espropiandoli del loro stesso essere. Ho ripensato a questa teoria nel momento in cui Mons. Raspanti stava per presentare un libro sul misticismo e mi ha mostrato il suo interesse ad una lettura psicologica del fenomeno. La scena si è illuminata del tutto quando, avendo in mano il libro, ho letto la testimonianza di un mistico francese, Paul Claudel, che appena diciottenne e un secolo prima di Sartre, scriveva “All’età di diciotto anni pensavo che tutto fosse soggetto a “leggi”, e che questo mondo fosse una dura concatenazione di effetti e cause che la scienza sarebbe riuscita a sbrogliare perfettamente in breve tempo”. Le sue convinzioni furono del tutto sconvolte in un istante dentro la cattedrale di Notre-Dame de Paris il giorno di Natale “in un istante il mio cuore fu toccato e credetti …… così che, da allora, tutti i libri, tutti i ragionamenti, tutti i pericoli di una vita turbolenta, non hanno potuto scuotere la mia fede, né, a dire, il vero, toccarla”. Ecco una delle modalità con cui gli oggetti al contatto con la coscienza, con uno stato nuovo e diverso della coscienza,  possono assumere significati del tutto nuovi  ed essere visti e analizzati in maniera del tutto diversa.

E’ sorprendente come Claudel anticipi di circa 100 anni quanto affermato da Maturana nel 1981 in un congresso a Zurigo “la conoscenza della verità è impossibile”. Chiaramente la verità di cui parla Maturana è quella scientifica  e da questa affermazione fa derivare che l’organismo umano, anzi tutti gli organismi umani, si sviluppano e crescono all’interno di un processo di auto creazione o, per utilizzare il linguaggio dello stesso scienziato, all’interno di un processo di autopoiesi.  L’analisi scientifica, la spiegazione degli avvenimenti deve essere inserita all’interno di un nuovo paradigma epistemologico che tenga conto del rapporto, della relazione con “l’Altro” incorporata all’interno di un contesto che, come sostenuto anni prima da Bateson, costituisce la matrice dei significati.  E’ all’interno del rapporto tra l’uomo e il sacro che l’esperienza mistica può essere analizzata e spiegata senza nessuna tentazione di carattere riduttivistico tipico del metodo scientifico classico.

Mons. Raspanti all’interno del suo libro, già dall’introduzione, quasi mettendosi al riparo da eventuali critiche di tipo intellettualistico, dichiara che l’analisi che condurrà sul misticismo sarà di tipo religioso. Non potrebbe essere altrimenti, poiché qualsiasi narrazione trova spiegazione e significati all’interno del contesto in cui è inserita. Come affermato da E. Morin “L’oggettività che va ricercata è quella che integra l’osservato nell’osservazione, e non l’oggettivismo che crede di raggiungere l’oggetto sopprimendo l’osservato, e non fa che privilegiare un metodo di osservazione non relativistico. (…) La vera conoscenza dialettizza incessantemente il rapporto osservatore-osservato, “sottraendo” e “aggiungendo”. Ciò che va analizzato è il rapporto, la relazione, il legame che si viene a costituire tra osservatore e osservato.

Riconoscere per riconoscersi

Lacan, indica il luogo dell’altro nell’intersoggettività e, assumendo l’idea hegeliana, afferma che il soggetto ha bisogno dell’altro per esistere.  Il luogo dell’altro è quello materno e quello paterno, ma anche quello dell’altro sesso.  La madre, attraverso le cure, è il luogo del linguaggio che permette di comunicare con gli altri. Il padre invece è il luogo della legge e dell’ordine essendo “un significante in relazione con i significanti”.  Lacan da grande rilievo al “Nome del Padre” poiché se esso manca non ci può essere il luogo del “grande altro”.  Riconoscere il luogo dell’altro, in un rapporto di reciprocità “tra osservatore e osservato”,  permette di riconoscersi. Sul piano clinico se manca il “Nome del Padre”  si cade nella psicosi in cui il soggetto si relazionerà con un mondo immaginario e   sarà costretto a confrontarsi con un buco, con un cratere, con una voragine, insomma con l’assenza del luogo dell’altro.

Le esperienze mistiche riportate all’interno del libro individuano in maniera precisa questo luogo che è rappresentato dalla manifestazione, dal donarsi da parte di Dio o, se vogliamo in generale, da parte del sacro che entra prepotentemente nella loro vita e da quel momento diventa il loro faro e la loro guida, così come il padre lo diventa, attraverso i processi identificativi per i loro figli.  Come leggere altrimenti il racconto di Janne Schimtz-Rouly “nel momento in cui stavo prendendo un cappotto nell’armadio, sono stata atterrata dalla presenza sensibile di Dio in noi, indicibile, ma più reale allo spirito di tutto ciò che esiste quaggiù ……….. mi sentivo invasa da una felicità che solo Dio può dare. Immediatamente lo riconoscevo dal suo sigillo dopo che ne ero stata priva da settimane. Direi che dopo che si è provato, non c’è alcun modo di non riconoscerlo …… Quel che dovevo comprendere era: come lo Spirito dava loro di esprimersi. Ciò non vuol che non si esiste più, non si esiste più se non muovendosi tramite Dio”.

Riconoscere per riconoscersi, non è un tema nuovo: nella cultura romana al padre era affidata la cura dell’edicola dei lari e dei Penati presente all’ingresso di ogni casa e che rappresentava il lascito generazionale ovvero il riconoscersi all’interno della storia familiare.

Cigoli identifica nel corpo familiare il luogo del riconoscimento, il luogo in cui ogni membro viene incorporato e nel, farlo, prende spunto dal corpo della Chiesa cosi come descritto da San Paolo per delineare l’unità della Chiesa nella diversità dei vari membri che la compongono.  

Il riconoscimento, per Honneth, è “un’interesse quasi-trascendentale della razza umana”.  Piromalli,  a tal proposito, afferma che “in totale assenza di qualsivoglia pratica riconoscitiva la riproduzione delle società sarebbe impossibile, come lo sarebbe per il singolo individuo la conduzione di una vita propriamente umana, in quanto caratterizzata da una seppur elementare fiducia in sé e nel proprio ambiente relazionale.

Caillè sostiene che le azioni dell’uomo tendono al farsi riconoscere come attore unico all’interno del palco della vita. Egli mutua il suddetto concetto dalla Aredent la quale sostiene che tutti gli esseri viventi “uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, ma sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti”.  In tal modo,   il riconoscimento è una diventa un  atto trascendentale e presuppone che  vi sia una “dipendenza, propriamente umana, dal riconoscimento intersoggettivo”.  

Caillè nel dare forza al riconoscimento intersoggettivo  lo inserisce nell’atto del donare che presuppone tre azioni: donare, ricevere e ricambiare. Allo stesso modo Ricoeur, nel rispondere  alle seguenti domande: chi può dire di essere stato riconosciuto? Quando sappiamo e quando crediamo di essere stati riconosciuti? E ugualmente, noi possiamo essere riconosciuti?”, in una relazione tenuta alla Katholische Akademie di Mainz nel 2003, introduce il concetto di “mutualitè” o di “dono” ovvero di reciprocità la quale quando viene agita dagli uomini “il dono” diventa “ il pegno e il sostituto di un riconoscimento reciproco che non si riconosce affatto; dunque il riconoscimento non può attestarsi che nel pegno del regalo”. In sostanza, risolvendo una controversia tra Mauss che sosteneva che il ricevente debba necessariamente contraccambiare e Levy-Strauss che affermava che il vero valore del dono sta nella reciprocità dello scambio,  Ricoeur, avvicinandosi a quest’ultimo, asserisce che nel regalo si dona simbolicamente il riconoscimento reciproco non riconoscendosi:  il regalo senza prezzo, che non ha valore commerciale, può essere preso a pegno del riconoscimento reciproco. In questo modo egli risolve l’enigma del dono ovvero il contraccambiare.

Donare crea un debito, anche se non voluto nel ricevente ed “allora l’atto importante non è affatto donare-contraccambiare, bensì ricevere. Perché è nella maniera di ricevere che il donatore è riconosciuto, ed è nella generosità del ricevere che colui che contraccambia si trova preso nella dinamica di generosità del donatore, e nella recezione è coinvolto nel cerchio della reciprocità. Ritroviamo l’agape, come nel donare senza contropartita: contraccambiare è, in una certa maniera, essere nella ripetizione del donare senza contropartita”.  Il contraccambiare è così inserito all’interno di un contesto simbolico il cui unico scopo è quello, attraverso l’atto reciproco del riconoscimento e del riconoscersi, di creare un legame.  

Marion situa il dono in uno spazio in uno spazio metastorico da cui lo storico ha origine che è di esclusiva competenza della teologia. E’ solo all’interno di questo spazio che diviene visibile la verità rivelata per cui l’invisibile diventa visibile e, in senso ricoeriano,  è possibile avere l’esperienza del riconoscimento.  Marion, infatti, considera il dono come fondamento relazionale e l’archetipo della fenomenologia intesa come modalità di spiegazione dei fenomeni non accessibili. 

Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in Veritate”, a tal proposito, scrive “Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti”.  Dai racconti delle esperienze mistiche riportate nel testo emergono chiaramente tutti questi elementi: Dio si dona agli uomini i quali lo riconoscono come esempio da imitare e seguire e, quindi, si riconoscono in lui. “E’ vero! Dio esiste, è lì. E’ un essere personale come me!  Mi ama, mi chiama” scrive Paul Claudel e continua “che mi importava del resto del mondo in confronto a questo nuovo e prodigioso essere che veniva a rivelarmisi?”. Allo stesso modo Maria dell’Incarnazione scrive “questo Dio d’amore si è donato a lei, e lei si è donata reciprocamente a Dio”. 

Da questi racconti emerge chiaramente che il rituale del donare costituisce un’azione di senso compiuto inserita all’interno del paradigma sacro del farsi riconoscere e, quindi, di sviluppare relazioni interpersonali. Per Honneth il riconoscimento avviene in tre sfere delle relazioni interpersonali: “nel rapporto di riconoscimento affettivo della famiglia l’individuo umano è riconosciuto come un essere concreto e bisognoso; nel rapporto di riconoscimento cognitivo-formale del diritto lo è invece come astratta persona giuridica; infine, nel rapporto di riconoscimento statale … esso viene riconosciuto come universale concreto, vale a dire come soggetto socializzato nella sua unicità”.  A queste tre categorie mi permetto, in base ai racconti dei mistici, di aggiungerne un’altra ovvero il riconoscimento sacro con una entità superiore che tende ad inserire l’essere umano all’interno di una storia, di un corpo quello della Chiesa e all’interno della Comunione dei Santi.

Sarason mette in risalto che il farsi riconoscere porta a sentirsi appartenente “ad una collettività stabilendo un sistema di rapporti e di interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari”. Lo stesso autore rileva che questo sistema d’interdipendenza costituisce l’esito di un processo e deve essere volontariamente mantenuto. Ciò implica l’idea che il senso di comunità dipenda dagli investimenti individuali in funzione di uno scopo sovraordinato – il mantenimento di uno specifico sistema di rapporti – e dalla sua condivisione a livello collettivo.  Farsi riconoscere, quindi, oltre ad essere un atto volontario, è un atto simbolico che è necessario al fine di mantenere una comunità. Lo stesso atto assumendo valore simbolico, mettendoci a contatto con la sacralità, è un atto di riconoscimento che permettere il perpetuarsi del senso di appartenenza ad una  comunità.

Sempre Benedetto XVI nella stessa enciclica citata afferma “Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini”. Spesso questa tensione morale, sotto la spinta di un positivismo imperante che ha cercato il sé individuale all’interno del biologico, è stata dimenticata dagli studiosi. Eppure il sacro è una dimensione dell’esistenza che non può essere trascurata poiché, spesso, costituisce ciò che Bateson ha identificato come la “struttura che connette” la quale risponde a una domanda che lo stesso autore si è posto: Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?” 

Per Bateson la struttura che connette è tipica della “creatura”. D’altronde, già Platone nel Convivio sosteneva che ogni uomo è simbolo giacché “tessera dell’uomo totale…tensione verso una totalità assente, ma richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente“.  L’uomo in quanto simbolo è portatore di un significato profondo del quale diventa espressione.

I mistici  raccontano di vivere la straordinaria esperienza di entrare in contatto con la creatura e riconoscersi in  Colui che tutto connette e mette in relazione senza per questo perdere la propria identità, anzi al contrario,  arricchendola nel sentirsi parte di un progetto comunitario più grande e, nello stesso tempo, essere testimoni di un’incontro speciale.   Robert de Langeac descrive emblematicamente e mirabilmente questo processo “E’ intimità profonda; è la comunione perfetta, è la fusione senza mescolanza e confusione. Si è Lui e Lui è sé. Si è tutto ciò che Egli è. Si ha tutto ciò che egli ha” e, ancora, Santa Caterina da Genova “il mio Io è Dio, non conosco altro Io che questo mio Dio”.  Questo atto di riconoscimento reciproco in cui Dio riconosce l’uomo e quest’ultimo Dio può, ad una prima analisi, sembrare strano poiché assume le caratteristiche di un atto trascendentale, di una relazione, di un legame con una entità non visibile. Eppure Galimberti arriva a sostenere che il contatto con il sacro è una esigenza antropologica dell’uomo e “fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro, successivamente di “divino”. In questo scenario Dio è arrivato con molto, molto, molto ritardo”.

Eliade, storico delle religioni, fa coincidere questo contatto con i riti d’iniziazione delle società arcaiche che spesso sono collegate al sacro. Egli sostiene che “l’iniziazione mette fine all”uomo naturale e introduce il novizio alla cultura” che ha  “origine soprannaturale. Gli anziani, gli sciamani, i maestri spirituali che sono stati investiti e iniziati dal sacro fin dai tempi remoti hanno il compito di far rinascere l’uomo come culturale in conformità a un canone esemplare e transumano”.

Misticismo, positivismo e meditazione

Il positivismo che ha contraddistinto il modello culturale della società moderna, forte del “sapere aude” kantiano, liberandosi dei riti d’iniziazione, dei simboli e dei rituali ha cercato le determinati del sé, dell’identità individuale all’interno del biologico nonostante tutti gli studi della psicologia dello sviluppo portano alla conclusione, cosi come affermato da Herder, che l’uomo si costruisce giorno dopo giorno. Ecco perché la lettura delle esperienze mistiche, non trovando collocazione all’interno del biologico, spesso era classificata come, a voler essere buoni, strana o il prodotto di un retaggio culturale di cui liberarsi.   L’esperienza mistica, al contrario,  può essere compresa all’interno di un contesto religioso e i significati non possono essere estrapolati al di fuori di quest’ultimo. Questo vale per il misticismo così come per qualsiasi altra esperienza che può andare dalla meditazione allo sciamanesimo.

Walsh, uno dei maggiori esponenti della psicologia transpersonale, riprendendo il modello degli stati di coscienza di C. Tart, ha proposto uno schema per differenziare tra loro stati di trance (definiti come stati caratterizzati da una focalizzazione interna dell’attenzione accompagnata da una ridotta consapevolezza dell’ambiente esterno) di diversa origine. In particolare, studia il fenomeno dello sciamanesimo mettendolo a confronto con : il “viaggio sciamanico”, lo stato psicotico e gli stati avanzati della meditazione buddhista e dello yoga.  Ai fini della sua ricerca individua una serie dimensioni chiave implicati nello stato di trance tra cui: grado di controllo; consapevolezza dell’ambiente; capacità di comunicare;concentrazione; energia mentale/attivazione; calma; emozioni; identità o senso del sé; esperienze extra-corporee; contenuti dell’esperienza. Il significato di alcune di queste dimensioni può essere così sintetizzato:  1.Il grado di controllo si riferisce alla capacità di entrare o uscire volontariamente da un certo stato e alla capacità di controllare il contenuto dell’esperienza; 2. per quanto riguarda la concentrazione, ne viene considerato il “grado” (o intensità) e il fatto che essa sia “fissa” su un singolo oggetto (come in taluni stati di samadhi dello yoga) o “fluida”, cioè capace di passare da un oggetto all’altro (come nella meditazione buddista); 3. per i contenuti dell’esperienza, possiamo distinguere il loro grado di organizzazione (a seconda che le esperienze consistano in un insieme  disordinato di pensieri ed immagini o siano organizzate in sequenze significative), la modalità sensoriale (visiva, uditiva, somatica) e l’intensità percettiva degli oggetti.  

Dal confronto effettuato emerge che in quasi tutte le dimensioni considerate vi è una profonda diversità tra lo stato psicotico e le altre esperienze meditative. In particolare, come già accennato, mentre nello stato psicotico vi è una totale perdita di controllo rispetto all’esperienza che si sta vivendo. Negli stati meditativi, al contrario, il soggetto mantiene la sua identità e, soprattutto, il suo quotidiano non viene intaccato dall’esperienza vissuta. In termini psicodinamici, i mistici mantengono intatto l’esame di realtà mentre gli psicotici cadono e restano invischiati all’interno delle tendenze inconsce, in un vuoto esperienziale riempito solo ed esclusivamente da illusioni e fantasie provenienti da nodi e istanze non risolte.

Narrazione mistica

Il racconto delle esperienze mistiche, ciò che Mons. Raspanti definisce l’indicibile, presuppone la capacità di rendere leggibile ed interpretabile il sacro che per sua natura è il luogo “dell’indefferenziato”, “dell’ambivalenza”, “dell’indeterminatezza”, “dell’artistico”. E’ il luogo dell’indifferenziato poiché le definizioni sono delle convenzioni che permettono di trovare significati univoci e convenzionali agli oggetti in modo, da un lato, “di ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti” e, dall’altro, consentire “di nominare le cose secondo un significato universale” (Galimberti).

Il definire, il differenziare è tipico dell’attività della ragione che si difende dal non conosciuto, dalla non prevedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di catalogare le cose e i comportamenti per evitare l’imprevedibilità che è tipica della follia. Ciò vuol dire che nell’area sacrale le cose possono assumere mille e più significazioni. San Bernardo è consapevole della difficoltà di far comprendere agli altri l’esperienza vissuta e la paura di passare per folle tant’è che mette le mani avanti “per ora sopportate un po’ la mia follia”. Galimberti presume che la follia è il costitutivo dell’uomo nella sua singolarità. La ragione serve semplicemente per vivere esperienze con significati condivisi, ma essa collassa nel momento in cui ci ritroviamo a confrontarci con l’ambivalenza del nostro pensiero o nei sogni. E’ in questi momenti che viviamo l’esperienza del simbolico e del sacro. La stessa esperienza la viviamo nell’atto artistico e nella poesia attraverso le quali comunichiamo l’eccedenza di significati dal punto di vista semeiotico e trasmettiamo l’essere in comunione, attraverso i simboli, con il sacro.

La poesia è un atto linguistico che supera e travalica i segni. Per i suddetti motivi il linguaggio utilizzato, come definito dallo stesso autore,  è poietico e pieno di simboli poiché devono rendere visibile ciò che visibile non è,  e interpretabile ciò che non può essere interpretato. D’altronde, cosi come descritto da Platone nel Convivio, l’esperienza mistica esprime una valenza simbolica che va “dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia”.

In tutte le esperienze riportate nel libro si riscoprono, attraverso l’incontro con Dio,  diversi da quello che erano prima come se avessero completato il loro processo d’individuazione e avessero scoperto una nuova identità. Le loro vite dall’incontro cambiano radicalmente cosi come le modalità di interpretazione della realtà circostante.  La difficoltà di rendere visibile e, soprattutto, comprensibile la loro esperienza li porta ad utilizzare un linguaggio pieno di segni e simboli.  

Il linguaggio simbolico  ha il pregio di essere universale e interpretabile poiché esso richiama le immagini visive contenute all’interno dell’inconscio. Freud riteneva che i simboli precedono il linguaggio e sono una idea immaginaria e visiva attraverso la quale si esprime l’inconscio. Letteralmente egli sostiene che “La relazione simbolica, mai insegnata al singolo ha i requisiti per venire considerata un’eredità filogenetica. Nelle successive fasi dello sviluppo i simboli tendono ad emergere come associati a idee rimosse, soprattutto, sul piano sessuale”.  Per leggere ed interpretare l’esperienza mistica dobbiamo tenere in considerazione quanto sostenuto da Jung : “un simbolo non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere”.   Da queste definizioni emerge, ad esempio, che la croce è nello stesso tempo un segno (nella concezione freudiana) o un simbolo (in quella jungiana). E’ un segno nel momento che la si associa con un episodio di sofferenza che è stato rimosso,  è un simbolo archetipico se rappresenta il passaggio  obbligato attraverso il quale  ogni cristiano può raggiungere la salvezza . 

E’ questa l’ambivalenza che Mons. Raspanti riscontra nel linguaggio con cui vengono descritte le esperienze mistiche poiché esse si presentano come un segno ma richiamano una verità simbolica. Sono un segno in quanto si presentano sotto forma di un di un rituale. Kerzer sostiene che “non si dà rituale senza simboli”  e/o, al contrario, il simbolo, per il suo esplicarsi, ha bisogno del rituale. Tra l’altro il rito è sempre di ordine simbolico in quanto evocatore di significati individuali e/o collettivi. Simbolo e rituale, inoltre, richiamano il mito sottostante per cui dare significazione al rituale – simbolico delle esperienze mistiche vuol dire inserire i vissuti in un contesto mitico che , nel caso in specie, risponde al mito d’origine ovvero ciò che spiega il prima e il dopo della morte.

L’azione umana ha sempre un senso ed è dotata d’intenzionalità, conscia o inconscia che sia, e produce sempre qualcosa di nuovo nello scorrere degli eventi e, conseguenzialmente, non solo cambia questi ultimi ma diventa narrazione.  Arendt, a tal proposito,  sostiene che l’azione umana, che spezza la catena deterministica delle cause e degli effetti introducendo nel mondo sempre qualcosa di nuovo, l’identità del soggetto diviene, da identità fisica che era, un’identità narrativa, dotata di una storia singolare e irripetibile. La narrazione dei mistici racconta il loro incontro con il  mito sul quale plasmano la loro identità.  Moretti  spiega che “incontrare il mito significa abbandonarsi a un’esperienza fortemente antiumanistica nel senso che in questo incontro (destinale) l’uomo non potrà più illudersi di dominare con uno sguardo razionale l’evento”. Cometa, a rafforzare la non razionalità che contraddistingue l’incontro con li mito,  mette in risalto che “Le mitologie vengono ….. intese come quel repertorio di fabulae in cui si annidano e si conservano i sogni, le speranze e le utopie dell’umanità. Il loro senso non sta dunque in un’improponibile verità altra ma proprio nell’altro della verità, in quella regio dissimilitudinis in cui il non-razionale convive accanto alla ragione” . 

L’obiettiva difficoltà di tradurre il non razionale, l’esperienza essenzialmente emotiva che provano nell’incontro con Dio,  i mistici preferirebbero non raccontarla poiché sanno che la loro narrazione li esporrebbe a molte critiche. Frank , nel comprendere le suddette difficoltà fa notare che “gli atti linguistici di natura simbolica o rituale sono oggetti di una credenza. Essi presuppongono la funzione denotativa del linguaggio, ma prendono quel segno o quella serie di segni come spunto per un proiezione di senso che si sovrappone invisibilmente al loro significato abituale”. Il sistema di credenze è da riferirsi al mito che lo stesso autore definisce come un racconto “in cui una certa realtà naturale o umana viene riferita alla dimensione del sacro, e questo riferimento la fonda”.  Fondare nel senso di dedurre ovvero di una spiegazione di tipo relazionale. Nel dare questa definizione, egli fa riferimento a Kolakowski il quale sostiene che il mito è fondamento “infondato” poiché non può essere compreso all’interno delle categorie razionali o scientifiche senza il rischio di trasformarlo in dottrina. Piuttosto, esso da un senso alla storia individuale, comunitaria, alla logica, alla conoscenza pratica rispondendo all’assurdità del mondo che rimanda sempre al niente, al disorientamento cui ci espone l’esperienza pratica.

Jeanne Schmtz-Rouly nel suo diario da prova delle sue difficoltà a raccontare le sue sensazioni emotive e il passaggio dalla logica razionale alla non razionalità “Mi ricordo che guardavo alcuni alberi di un piccolo giardino e che quel giorno era scuro e mi veniva quest’idea: è come se io dicessi che questo paesaggio scialbo e insignificante che vedo, è un’apoteosi di una primavera luminosa, talmente mi sento trasportata in altre regioni; Non so se si vede, anche se le strade e le case si vedono; ma si guarda senza vedere e sarebbe impossibile esprimere quel che si sente, se non dicendo di sentire che non si esiste più”.

Visioni e Mistica

L’ultima parte di queste riflessioni la voglio dedicare ai fenomeni collaterali ovvero all’esperienze quali visioni, levitazione, stigmate, apparizioni, etc. La chiesa, così come con spirito critico fa Mons. Raspanti nel suo libro, ha sempre guardato a questi fenomeni con molto sospetto. Così come riportato nella premessa di un libro storico sull’argomento “Visioni e profezie: mistica ed esperienza della trascendenza” di Karl Rahner, addirittura nell’immediato dopoguerra,  il Card. A. Ottaviani in un articolo apparso sull’Osservatore Romano fa rilevare  che molti fedeli guardano più ad apparizioni e visioni più che frequentare i sacramenti.

Le visioni, in ambito psicologico, sono state nel corso del tempo paragonate e assimilate alle allucinazioni che è possibile riscontrare in molte patologie tra cui spiccano le psicosi. Nel 2017 uno studio condotto dal Royal College of Psychiatrists   diretto da Ian Kelleher condotto su 7.400 soggetti con varie esperienze cliniche tra cui psicotici, individui affetti da ansie e depressione e persone perfettamente sane, mette in risalto sorprendentemente che il 4,3% di quelli non affetti da nessuna patologia riportava esperienze di visioni e/o di allucinazioni. Così come affermato dallo stesso direttore della ricerca, in un articolo sul The British Journal of Psychiatry,  la suddetta ricerca rompeva un tabù poiché “le allucinazioni sono più comuni e diffuse di quello che si tende pensare e riguardano anche soggetti che non hanno nessun tipo di patologia. Solo che spesso, dal momento che sono esperienze che possono spaventare, si tende a non parlarne”.  

Le visioni sono allucinazioni? Gli esperimenti condotti da Bonaiuto in Italia sulla privazione sensoriale, in contrapposizione a quanto sostenuto dalla letteratura statunitense, portano in tutt’altra direzione. Senza entrare in particolari tecnicismi ciò che sostiene Bonaiuto è che in condizioni di omogeneità sensoriale, in condizioni di noia,  il soggetto tende a ristrutturare il proprio campo percettivo  facendo emergere le proprie motivazioni. Da questo punto di vista le visioni, in condizioni di noia o di saturazione del campo percettivo,  non sono allucinazioni ma semplicemente lo strutturare un nuovo campo percettivo in funzione delle proprie motivazioni ed esigenze. D’altronde,  sono le modalità utilizzate dai pittori che mettono su tela una propria visione interna interpretando o, meglio, impastando la loro visione del reale con le loro motivazioni e/o concezioni.   Ci troviamo anche in questo caso con una saturazione del campo percettivo – la visione del reale – che viene reinventato all’interno dell’opera pittorica e messo su tela.

Che cos’è allora la visione del mistico ? dalle ricerche sopraesposte sicuramente, a differenza di quanto avviene nei fenomeni patologici quali le psicosi o alcune forme di disturbi dell’umore,  non è una allucinazione. E’ una visione reale? Questa è una domanda a cui è particolarmente difficile rispondere,  però una serie di analisi sicuramente li possiamo fare.

Intanto, dobbiamo chiederci il significato del termine reale e se veramente esiste una realtà oggettiva e non semplicemente una realtà condivisa.  Senza voler scomodare Schopenauer e prima di lui Platone,  le ricerche indicano che la realtà, come sostenuto da M. O. Belardinelli, è una costruzione ed è frutto delle nostre esperienze percettive per cui le motivazioni, i desideri, le credenze, le esigenze soggettive, etc. giocano un ruolo importante che influenzano e determinano le modalità di definizione degli oggetti esterni. Di fronte ad un quadro, ad un’opera d’arte ciò che vediamo e non vediamo è influenzato dal nostro interno e non è un caso se ognuno di noi da un’interpretazione diversa della stessa opera.

Se la percezione viene determinata dalla soggettività, le visioni dei mistici sicuramente rappresentano il loro incontro con Dio indipendentemente se la visione è avvenuta realmente o meno. Non vi sono motivi, tranne casi di evidente truffa, per non ipotizzare che la visione sia reale. Semmai ciò che dovremmo chiederci se la visione è frutto di un effettivo materializzarsi della figura Divina. Credo che su questo la scienza non può che sospendere i suoi giudizi perché si entra nel campo della fede ed è attraverso le categorie fideistiche o quelle riportate nelle Sacre Scritture che è possibile rispondere cosi come  fa Rahner nel libro citato in precedenza o, come risolve l’apparente enigma Mons. Raspanti attraverso il passo evangelico che “l’albero si riconosce da i suoi frutti”.

Le stimmate

Le stimmate da Charcot in poi sono state definite come un sintomo isterico, anche se Babinski, successivamente,  ha riconosciuto che mancava una relazione dimostrabile tra isteria e manifestazioni cutanee.  Freud riporta il caso di August P. per dimostrare, sulla scia del suo maestro Charcot, che vi era una stretta relazione tra isteria e stimmate e in, generale, i sintomi corporei.

La psicosomatica ha dimostrato che vi è una stretta relazione tra contenuti emotivi e manifestazioni fisiche o corporee. Basti pensare, ad esempio, al manifestarsi dell’ansia che spesso coinvolge il corpo che non è semplicemente un involucro che nasconde i contenuti interni, ma è il mezzo attraverso il quale la nostra emotività si esprime. Non è un caso, ad esempio, che nell’atto comunicativo l’aspetto linguistico rappresenta solo il 15% dello stesso e 85% è occupato dal non verbale e dal paraverbale in cui i segnali corporei esprimono proprio l’emotività del soggetto.

Oggi è conclamato che tante patologie che coinvolgono diversi apparati hanno origine da disturbi psicologici. Tanti autori e psicoterapeuti sostengono che i sintomi che i pazienti presentano in terapia e le loro modalità espressive sono metafora delle situazioni emotive e relazionali che gli stessi utenti vivono nella loro storia. Chiaramente è vero anche il contrario ovvero che i non sintomi,  i comportamenti catalogati come normali sono allo stesso modo espressione di un vissuto interno sereno e normale.

La scienza psicologica di tipo positivistico ha considerato le stimmate come una patologia e di conseguenza li ha considerate come un’esteriorizzazione di una rappresentazione mentale, che abbia una certa forza da potersi oggettivare in una manifestazione patologica.  Credo che in questa definizione vi sono due nessi che portano totalmente fuori strada e , anche quando li considerassimo delle ipotesi di ricerca, esse sono viziate da un pregiudizio ovvero che le manifestazioni che derivano dal sacro sono patologiche. Il pregiudizio è dettato dal tentativo di costruire un mondo nuovo dove  bisogna liberarsi, come indicato da kant, di tutti i miti, i simboli e i rituali provenienti dal passato. Ciò che non rientrava all’interno di questa visione veniva considerato patologico. Alcuni studiosi come J. Tinel hanno addirittura creato un nesso fisiopatologico in gado di collegare l’evento psichico al manifestarsi della patologia. L’evento psichico identificato è l’estasi mistica che è considerata come un evento talmente stressante da produrre la somatizzazione che si manifesta attraverso le stimmate, cosi come avviene in altri sintomi psicosomatici come l’ulcera peptica o l’ipertensione.

Dalle letture dei racconti mistici riportate nel testo di Mons. Raspanti non ho trovato nessun evento stressante vissuto dai mistici durante le loro esperienze di estasi. Al contrario, essi riportano sensazioni di benessere psicofisico, di tranquillità, di pace, di felicità. E’ per tale motivo che  nelle ricerche accennate  vi era un pregiudizio e, quindi, i risultati a cui giungono sono inficiati e non riescono a spiegare il fenomeno.  

L’esperienza mistica con tutte le manifestazioni collaterali,  anche se surreali, deve portarci a riflettere sul complesso rapporto tra emozioni e corpo che, per fortuna, normalmente e nella maggioranza della popolazione, non produce patologie e anche  le manifestazioni che possono apparire  “strane” non nascondono malattie sottostanti.

E’ interessante, a tal proposito, riportare il pensiero di Reich il quale sostiene che  «le emozioni sono flussi di energia che attraversano il corpo». Lowen, nel”Linguaggio del Corpo”, e Rogers, nell’ambito della terapia centrata sul cliente, fanno presente che il concetto di sé è frutto dell’integrazione tra esperienze emozionali (definite da loro organismiche) ed esperenziali  porta a una ristrutturazione cognitiva.  A tal proposito Rogers scrive “ in un organismo a qualunque livello esiste un sottostante flusso dinamico diretto all’adempimento costruttivo delle potenzialità ad esso inerenti. Nell’uomo c’è una tendenza all’attualizzazione naturale verso il completo sviluppo, che viene spesso designata come tendenza attualizzante, presente in tutti gli organismi viventi”.  

Ciò che arriva dalla tradizione clinica, inoltre,  mette in evidenza un meccanismo di equilibrazione  costante tra le diverse istanze proveniente dal sistema emotivo e la loro realizzazione in funzione dell’esame di realtà.  L’IO nella concezione di Freud, attenendosi per il suo funzionamento al principio di realtà, ha il compito di mediare tra le istanze pulsionali provenienti dall’ES  (inconscio)  e il Super Io (luogo delle esigenze morali). La patologia, semplificando molto, si instaura nel momento in cui l’IO non riesce a svolgere il proprio ruolo ovvero di portare alla coscienza le istanze inconsce.  Per Lacan, estendendo la teoria freudiana,  l’individuo può sperimentare il godimento se riesce ad inserire il desiderio all’interno della legge e la patologia è frutto o del negare il desiderio o  del realizzarlo senza tenere conto della legge.  

I mistici che non hanno mai avuto diagnosi attestanti una patologia, nei loro racconti fanno emergere questa profonda esperienza di godimento nata dal desiderio di incontrare Dio o, comunque, rispondente allo stesso. L’incontro, inoltre, avviene all’interno di una cornice reale ovvero in luoghi ben precisi e ha tutti i presupposti di carattere etico e, quindi, risponde alla “Legge”.  

Attestato che i mistici non sono soggetti con patologie psichiatriche e tra l’altro sono ben inseriti all’interno del loro sistema sociale, le stimmate cosa rappresentano e da dove nascono?  Le stimmate, tolti gli aspetti di carattere patologico, sono il segno evidente del processo di identificazione tra l’uomo e Dio: sono il segno di questa esperienza di godimento e del desiderio del mistico di essere compartecipe della passione di Gesù.

Il corpo allo stesso modo in cui segnala disagi di carattere emotivo, esprime anche le esperienze di compartecipazione ad una storia d’amore.  

Le stimmate,inoltre, sono un segnale visivo che serve ad indicare un’appartenenza cosi come avviene in tutti i gruppi che per identificarsi utilizzano lo stesso tatuaggio o la stessa moto e cosi via.  L’uomo per sua natura ha bisogno di appartenere: io sono  membro di una famiglia, di un luogo quello di nascita o di residenza, di uno stato, etc.  L’appartenere si visualizza con un simbolo, con un segnale evidente che indica chi sono e da dove provengo: il cognome,  lo stemma di famiglia, il sopranome per le famiglie più povere, la bandiera di uno stato. Le truppe militari hanno sempre una bandiera che li precede e attorno ad essa  vi sono tanti rituali come l’alza bandiera e cosi via. Attraverso questi simboli avviene il riconoscimento comune e ogni membro si sente partecipe di una storia più grande. 

Nell’ambito della psicosomatica e non solo ed anche tramite la neuropsicologia sappiamo che il nostro cervello ha la capacità di rilasciare  o non rilasciare ormoni, neurotrasmettitori ed altro in grado di modificare le funzioni corporee. Per fare due esempi in una ricerca riguardante l’acne giovanile e il ruolo dell’ansia svolta dall’ Ospedale Bambin Gesù di Roma si è scoperto che in situazioni di particolare stress viene rilasciato da parte dell’ipofisi un ormone in grado di distruggere il bulbo pilifero dando luogo all’infiammazione propedeutica all’instaurarsi dell’acne. In un’altra ricerca, svolta negli Stati Uniti, sugli effetti degli antidepressivi e della psicoterapia sui livelli di serotonina che in caso di depressione si abbassano in maniera considerevole. I ricercatori hanno scoperto che l’antidepressivo e la psicoterapia facevano aumentare allo stesso modo i livelli di serotonina all’interno del corpo. Da ciò si deduce che anche in assenza di stimolazione farmacologica, i cambiamenti prodotti dagli interventi di psicoterapia fanno aumentare il livello del neurotrasmettitore.  Ciò significa che il nostro cervello ha la capacità di modificare continuamente in funzione delle esperienze soggettive le sue modalità di funzionamento e, di conseguenza,  anche quello corporeo.

In una metà analisi condotta in Italia da Boccia et al., utilizzando anche tecniche di neuroimagining, sul ruolo della meditazione e l’organizzazione del cervello si è arrivati alla conclusione che le tecniche meditative portano all’attivazione di aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione di informazioni auto-rilevanti, auto-regolazione, problem solving focalizzato, comportamento adattivo e interoception. Inoltre, nei meditatori esperti, una pratica di meditazione porta a cambiamenti funzionali e strutturali del cervello, in particolare nelle aree coinvolte nei processi autoreferenziali come la consapevolezza di sé e l’autoregolazione.

In sostanza le ricerche ci indicano, e non solo in ambito umano ma anche quelle in campo  etologico,  che  noi ad oggi non conosciamo i meccanismi e le funzioni possibili del nostro cervello anche se l’attuale stato ci indica che esso è in grado di modificare il nostro corpo. Se vogliamo leggere ed analizzare le stimmate senza nessun pregiudizio a questo stato delle ricerche ci dobbiamo fermare ed interrompere il nostro giudizio. Un dato esperienziale sicuramente emerge ed è quello che esse sono un segno di un legame che i mistici stabiliscono con una entità sovranaturale che simbolicamente esprimono attraverso i segni che portano sul loro corpo.

Conclusione

In conclusione, posso affermare che l’esperienza mistica   ha tutte le caratteristiche di un intenso legame d’amore con la perfetta fusione tra uomo e Dio. Mons. Raspanti lo descrive egregiamente nel paragrafo sull’esperienza mistica e struttura dell’anima umana che in termini psicologici lo riduce alle teorie sopradescritte.  I legami, infatti,  si stabiliscono per affermare un “noi” che prende il posto dell’io. 

La libido (nel significato originale proviene dal tedesco liebe che si traduce con amore), secondo Freud,  è la forza motrice che porta alla conoscenza e ai legami. L’Eros “liberandosi dagli appetiti sessuali”,  cambia oggetto investendo mete culturali e socialmente sintoniche . In questo modo la libido nasce come amor per poi trasformarsi in caritas che indica l’amore casto per il prossimo, per la chiesa, per Dio. Alcuni hanno parafrasato questa fase in greco sostenendo che la libido nasce come amore e si trasforma in agape. 

Schopenhauer, ad esempio,  distingue l’amore in due categorie: Eros e Agape.  Considera l’Eros come una forza istintiva e totalmente distruttiva volta semplicemente al piacere sessuale ai fini della riproduzione della specie. Emblematicamente raffigura l’Eros con l’amantide religiosa che prima si accoppia e poi uccide il suo amante. Il vero amore risiede nell’agape ovvero nella carità e nella pietà.

E’ all’interno di questa agape tra uomo e Dio che trova collazione e spiegazione l’esperienza mistica, anche se debbo rilevare che qualsiasi legame trova i suoi connotati all’interno di due assi: pathos ed ethos. Il pathos, seppur capriccioso,  ha i suoi capisaldi nella speranza e nella fiducia: io mi affido all’altro nella speranza e nella fiducia di poter essere ricambiato. L’Ethos si basa sulla giustizia e sulla lealtà: le promesse e le affermazioni di ambedue i partecipanti al legame sono sancite da un ordine a cui ciascuno di loro deve fare riferimento. Nell’esperienza mistica, attraverso un processo reciproco, Dio nutre speranza e fiducia nell’uomo il quale, a sua volta, investito da questa forza vitale, si affida con la stessa intensità e con gli stessi sentimenti totalmente a Lui.