Il “fine vita” nella prognosi infausta

A cura del Prof. Mariano Indelicato, Presidente Pronto Soccorso Psicologico-Italia

fine vita e prognosi infausta

“Se si trovano significato e spiegazione all’esperienza di morte, anche il tempo della vita può essere riempito indipendentemente e al di là della previsione di fine”.

La diagnosi infausta nell’80% dei casi riguarda i tumori. La comunicazione di una simile diagnosi con relativa prognosi rappresenta spesso per la persona malata uno shock che causa una rottura nella percezione della propria continuità esistenziale. L’attribuzione di significato che la mente del paziente spesso elabora fin dalla diagnosi è: cancro = morte.

La crisi della scoperta può produrre paure e preoccupazioni universalmente riscontrate: la paura di morire; la paura di diventare disabile e dipendente dagli altri; la preoccupazione riguardo le incertezze sulle possibilità della medicina; la preoccupazione riguardo l’impatto del cancro sui progetti di vita; la paura di andare incontro a una morte dolorosa (Holland, Friedlander, 2006).

Il confronto con l’idea del non esserci più mette di fronte ad un celebre aforisma di Montaigne: “Chi insegnerà agli uomini a morire, insegnerà loro a vivere”. In sostanza Montaigne afferma che è difficile imparare a vivere senza aver trovato qualche soluzione al problema della morte, cioè senza che qualcuno ci abbia insegnato a morire.

Per comprendere meglio il monito basta considerare quale vita sono costretti a fare coloro che sono dominati dai sentimenti che può provocare negli esseri umani la coscienza di essere mortali, cioè, fondamentalmente, la paura, l’angoscia e il desiderio della morte.

  • Chi ha tanta paura di morire tenderà ad aver “paura di tutto” – perché si può rischiare di morire anche inciampando su un gradino di casa -, o a sviluppare qualche paura “preventiva” (fobia), che consiste nell’evitare ciò che fa pensare al rischio di morire, come la fobia dell’aereo, dei luoghi affollati, del buio o della morte stessa.
  • Chi teme che il nulla ci attenda dopo la morte, cioè chi pensa che si viva una volta sola e soffre di quella particolare sofferenza che i filosofi (come Heidegger) hanno chiamato “angoscia di morte”, dovrà impegnarsi nella sempre incerta ricerca dell’eternità e dell’infinito, se vuole annullare il nulla dopo la morte, o dovrà trovare il coraggio di vivere come se ogni istante fosse l’ultimo, se vuole fare l’eroe di fronte al nulla.
  • Chi desidera la morte ogni volta che non riesce a sopportare la vita avrà una vita precaria e la disprezzerà ogni volta che soffre troppo

Per non “rovinarsi” la vita in uno di questi tre modi sembrano esserci solo due possibilità: o eliminare i sentimenti che accompagnano la morte (paura, angoscia e desiderio) “separando” la morte dalla vita, oppure tenerseli ed “educarli”, in modo da rendere vivibile la vita nonostante la morte. La prima alternativa è quella preferita dalla nostra cultura, la seconda è quella suggerita dall’aforisma di Montaigne.

Ecco perché nella nostra epoca l’educazione alla morte tende a non far parte dell’educazione alla vita, e l’educazione alla vita di oggi si basa proprio sul tentativo di far scomparire i sentimenti che accompagnano la morte. Eppure la divisione tra vita e morte è semplicemente artificiosa in quanto nello stesso concetto di “vita” è insito un inizio e una fine. Non accettare che la vita cessi di essere cosi come l’abbiamo conosciuta vorrebbe dire non accettare la nascita.

Credo che a nessuno di noi venga in mente di non accettare l’idea dell’inizio della vita. Attraverso, quindi, un ragionamento razionale nascita e morte dovrebbero essere riconosciute come momenti cardine della stessa vita ed, invece, i vissuti sono totalmente diversi: di gioia nel caso della nascita; di tristezza e disperazione in caso di morte.

L’angoscia di morte, la stessa che implica la comunicazione di una diagnosi a prognosi infausta, comporta l’analisi di molti fattori tra cui la “concezione del tempo” e il “non conosciuto” ovvero il buio assoluto, in un ambiente non abituale. Il tempo è, da un lato, strettamente collegato alla prognosi (deve essere sistemato tutto nel tempo previsto dalla prognosi) e, dall’altro, alla sua apparente interruzione poiché il passaggio dalla vita alla morte proietta da un tempo finito ad uno infinito.

L’uomo nel corso della sua intera esistenza tende all’immortalità ovvero ad un tempo infinito e paradossalmente lo raggiunge solo con la morte. Quest’ultima rende eterni sia nelle concezioni religiose che in quelle atee. La concezione della morte, d’altronde, la troviamo in qualsiasi era della storia e in qualsiasi civiltà con diversi significati simbolici, con diverse ritualità ma, sempre legata al tentativo di rispondere alla domanda sull’origine e sulla fine. Anche i materialisti, ovvero quelli che non credono che esista un Dio e una vita oltre la morte, hanno dovuto confrontarsi con questo dilemma e, spesso, di fronte alla morte hanno risposto che essa non esiste.

Sembrerebbe un paradosso, eppure essi partono dal concetto di Lavoisier che la materia non si crea e neppure si distrugge ma, semplicemente, si trasforma. M. Hach, nel libro “Io credo”, afferma: “io non credo nel destino, le cose succedono e basta. Come gli epicurei, mi dico: finché ci sono io c’è la vita, quando c’è la morte non ci sono più io. Non credo nell’aldilà, non credo ci sia nulla dopo la morte. Credo che le mie molecole resteranno, l’atomo di idrogeno è praticamente immortale, ha una vita lunghissima, quindi le particelle che compongono il mio corpo sopravvivranno. Non sarò più io, le mie molecole si sparpaglieranno nell’atmosfera terrestre, serviranno a costruire altre persone, altri oggetti, chissà. Comunque io non ci sarò più”.

E’ talmente importante poter razionalizzare la morte che la ricerca dell’immortalità ha guidato le azioni umane e le ricerche scientifiche e, come informa Morin, esse sono state volte alla “amortalità” ovvero al poter allontanare la morte per un tempo indefinito.

Le ricerche sulle cellule madri ha comportato nuove speranze per l’umanità poiché si è ipotizzato che qualsiasi organo del corpo potesse essere riparato fino a quando non si è scoperto che queste cellule si sviluppano in modo incontrollato e ci si trova di colpo nello stesso processo del cancro: uno sviluppo incontrollato di cellule.

La verità è che non esiste materia al mondo che sia immortale poiché tutto ha un inizio e una fine. Il problema è la concezione della fine e se con quest’ultima muore anche la speranza. Nella concezione della vita, infatti, è insita la “speranza”: tutte le azioni umane sono sostenute dalla speranza del cambiamento. Una paziente affetta da tumore al seno prima dell’intervento di mastectomia bilaterale, dopo aver subito trattamenti antiblastici, rivolgendosi al suo medico “Questa mattina dottore mi sono svegliata con un’illuminazione che mi ha fatto star bene… dopo l’intervento quando abbraccerò mio marito, i nostri cuori saranno più vicini!”.

La speranza da significato ai gesti quotidiani e trovare spiegazioni ai propri comportamenti è uno degli scopi della vita.

“Se si trovano, quindi, significato e spiegazione all’esperienza di morte anche il tempo della vita può essere riempito indipendentemente e al di là della previsione di fine”.

D’altronde non è un caso che non è dato sapere la data della fine per ognuno di noi per poter vivere intrisi di speranza nel futuro. La diagnosi infausta con indicazioni sulla data presunta di morte improvvisamente mette di fronte a questo dilemma: “cosa fare o non fare”. Ecco la necessità di essere educati alla morte.

Platone nel Fedone descrive la morte di Socrate e la sua scelta di non scappare di fronte alla condanna subita. Socrate affronta la morte con grande serenità: sostiene che chi possiede il dono della filosofia la accetta con gioia poiché “in primo luogo sto andando verso altri dèi che sono saggi e buoni (dei quali son certo come posso esserlo in simili questioni) ed in secondo luogo (benché non ne sia sicuro) verso uomini già morti, che sono migliori di quelli che lascio dietro di me. Ho buone speranze che al morto resti ancora qualcosa, e qualcosa di decisamente migliore per il buono che non per il cattivo”.

Nella visione socratica, in larga parte ripresa dal cristianesimo, muore il corpo ma non l’anima che, al contrario, liberandosi del primo, ha accesso al “mondo delle idee” e, quindi, al potersi confrontare con la verità.

Nel cristianesimo la venuta di Gesù sconfigge la morte poiché promette a tutti la Resurrezione, ovvero la rinascita in un mondo nuovo in cui si è continuamente a contatto con la visione di Dio. Gli uomini che vanno in battaglia offrono la loro vita per difendere un alto valore come la patria. Tutte queste esperienze indicano, (per non parlare di quelle di pre-morte a cui andrebbe dedicato un articolo a parte), che se nell’esperienza della morte vi è uno scopo e, quindi, la speranza di un nuovo esistere, essa assume un valenza totalmente diversa.

Nella stanza di terapia, nel sostegno alle persone colpite da una diagnosi infausta si deve tenere conto di tutti questi fattori in modo da supportare il paziente nel gravoso compito dell’accettazione della fine vicina. I professionisti del Pronto Soccorso Psicologico Italia, con l’ausilio delle metodologie delle psicoterapie esistenziali, dalla psicoterapia supportivo-espressiva (Yalom e Spiegel), dalla terapia centrata sulla dignità (Chochinov), dalla psicoterapia centrata sul significato (Breitbart), lavorano sul comprendere l’idea che “ogni persona è responsabile per sè stessa al fine di trovare un significato alla propria vita. Inoltre, attraverso la Hope Therapy (terapia della speranza) fanno si che “nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta” (Khalil Gibran).

Il ricordo sostiene l’immortalità dimostrando che “non si muore mai, se si continua a vivere nel ricordo di molti”.

Prof. Mariano Indelicato, Presidente PSP-Italia