Dal grido alla “domanda”

A cura della Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione PSP-Italia

Dal grido alla “domanda”

“La Madre è l’Altro per eccellenza che risponde al grido della vita non lasciandola cadere nell’insignificanza, ma offrendole un sostegno senza il quale precipiterebbe nel vuoto” (M. Recalcati)

Ciascun bambino viene alla vita in una condizione di insufficienza, di vulnerabilità, di impreparazione, di inermità, di esposizione al non senso del reale, di abbandono assoluto; occorre la presenza di “qualcuno” che possa accogliere e custodire quella vita, proteggerla, sottrarla alla possibilità della caduta, rispondere dando significazione a quel grido che solo così può trasformarsi in “domanda”.

La primissima forma di relazione tra il bambino e l’altro, che si instaura proprio nel momento in cui quest’ultimo “risponde” al suo pianto disperato, permette il passaggio dal grido -pura scarica del bisogno nella voce- alla “domanda”, che è articolazione di un bisogno che acquista “significazione” solo grazie all’Altro che la accoglie non mostrandosi sordo, non facendo precipitare il bambino nella disperazione, non lasciando la vita sola e senza speranza. Nella descrizione freudiana del “primo soccorritore” all’esordio traumatico della vita si può rintracciare nella madre questo altro “più prossimo” che risponde all’appello della vita che grida.

Alla sua nascita il bambino è dunque immerso in una “mancanza reale”: è impotente nei movimenti, non è coordinato, non è in grado di far cessare da solo le condizioni di forte disagio e di sofferenza corporea che sperimenta e che prima della nascita non conosceva (fame, sete, caldo, freddo…); si trova esposto a tutto questo senza rimedio, ed ha bisogno di qualcuno.

Contro questa condizione di “mancanza reale” l’unica salvezza per il bambino è la presenza di un Altro disposto a sostenerlo, a farlo muovere con facilità mentre lo sorregge in braccio, a scaldarlo, a nutrirlo, ad offrirgli così le soluzioni alla sua impotenza: il bambino dipende senza riserve dall’esistenza della madre come non accade in nessun altro legame umano. É in questo punto che si situa “la genesi del loro legame d’amore”, che consiste proprio in questa vitale “compensazione al reale dell’impotenza”.

Questa impotenza viene manifestata dal bambino attraverso il pianto, unico strumento che il piccolo ha in quel momento per comunicare. Quando un neonato piange esprime peró un malessere indistinto, una situazione confusa di disagio; spetta all’Altro significativo e significante fornire una risposta. Il bambino riceve “il senso” della sua domanda dalla risposta che gli perviene dalla madre.

La prima forma linguistica che si instaura tra i due è fatta di bisbigli, suoni, lallazioni, gesti; tutto ciò, insieme agli strilli, al pianto, agli sguardi, ai sorrisi “è già linguaggio” (G. Lemoine). Una sorta di sciame apparentemente indistinto e confusionario, che in queste sue manifestazioni primordiali appare evidentemente irriducibile ai classici elementi grammaticali, che non risponde ancora alle leggi tradizionali del linguaggio, ma che costituisce la materia prima sulla quale quelle leggi si applicheranno. Si tratta di un primo deposito stratificato di segni, generatosi dalla relazione tra la madre e il bambino; è quella lingua “particolare” che ha nutrito i loro primissimi scambi vitali, e che anticipa l’accesso al linguaggio alfabetico. “É la lalingua che precede il linguaggio come struttura articolata semanticamente”. (M. Recalcati).

La madre inscrive il soggetto nel campo del linguaggio attraverso le sue “risposte” che si rivelano e si manifestano attraverso “le modalità e i gesti delle sue cure”. In virtù di ciò essa è il preminente “luogo del significante”: i suoi gesti diventano “segni” di un qualcos’altro.

Un esempio principe è costituito dal sorriso, risposta significante per eccellenza. Il sorriso è la metafora della volontà positiva dell’altro: sorridendo al bambino, lo si riconosce, lo si approva, gli si dice si, lo si lega a sé. Non solo dunque la madre del seno, ma soprattutto la “madre del segno”.

L’Altro che viene interpellato (e quindi la madre per il bambino), si configura come colui in grado di rispondere. La madre diviene dunque “il luogo da cui partono tutti i soddisfacimenti”. É la madre, così come intesa da M. Klein, che “contiene dentro di sé tutti gli oggetti”; è la “madre dell’avere”. Il poter ricevere questi oggetti dipende dalla volontà dell’Altro: la madre li può dare o non dare. La “potenza materna” può arrivare a decidere della vita e della morte (psichica) del figlio, proprio in virtù di questa sproporzione assoluta nei confronti dell’inermità del piccolo: nessuna relazione è così sbilanciata e soggiogante, in nessun’altra relazione umana l’uno occupa una posizione di pura onnipotenza rispetto all’altro. (Questa sproporzione, secondo Lacan, contrasta nettamente con il concetto di “onnipotenza infantile”, che è piuttosto un’illusione).

La domanda del bambino però non è solo di soddisfacimento di un suo bisogno biologico, (primo tra tutti quello di poter ricevere il cibo). La pulsione ad un certo punto si emancipa dalla base materiale dell’istinto e il bambino entra in una dimensione che trascende la pura necessità biologica: il bambino vuole sentire la presenza dell’Altro, il suo desiderio è quello di sentirsi desiderato dalla madre, la sua è una “domanda di riconoscimento”.

Un esempio esemplificativo di ciò è il seno, simbolo per antonomasia della madre delle cure, della madre che sa nutrire la vita. In realtà il seno materno appare come un oggetto da sempre “sdoppiato”: da un lato soddisfa i bisogni più elementari del bambino, quelli legati alla fame e alla sete (è cioè un seno-oggetto), dall’altro lato è il segno della presenza amorevole accudente dell’altro (è un seno-segno), tanto che il bambino dopo aver saziato la sua fame continua a trattenere comunque nelle sue labbra il capezzolo della madre.

“La madre del seno non esaurisce mai la madre del segno”. La trasmutazione che investe il seno indica che esso non è più solo l’oggetto del soddisfacimento del bisogno, ma diviene un segno del desiderio dell’altro, un segno d’amore. Il seno si divide dunque in un seno-oggetto che risponde al bisogno, e in seno-segno che risponde a domande irriducibili a quelle istintuali del bisogno, ovvero ad una domanda d’amore. Quando una madre offre il suo seno non offre solo il seno in quanto oggetto, ma dona il seno come “segno del proprio amore”.

La vita umana necessità di un “altro” nutrimento oltre a quello che può soddisfare il piano dei bisogni più immediati: questo significa che il “dono d’amore” trascende sempre il piano dell’oggetto, perché non è mai dono di qualcosa che si possiede, ma “dono di ciò che non si ha”, di ciò che radicalmente manca a sé stessi (M. Recalcati). Si tratta anche per J. Lacan della definizione più alta e più precisa dell’amore: ”Amare è dare all’altro quello che non si ha”.

Una madre dunque non si distingue tanto per la solerzia delle sue cure, ma per come sa rispondere al “desiderio di riconoscimento” del bambino. Non offre semplicemente al bambino l’oggetto della gratificazione che può risolvere l’urgenza del suo bisogno, ma il segno che “lo sta riconoscendo come soggetto del proprio desiderio, del proprio amore”.

Il bambino ad un certo punto della sua richiesta smarrisce il mero bisogno fisiologico e si aliena in domande che chiedono solo di “non essere fraintese”: il peggior pericolo è che vengano interpretate esclusivamente come richiesta di cose. …Perché ciò che l’essere umano desidera, al di là delle infinite domande, è di essere riconosciuto come “oggetto del desiderio dell’Altro” (J. Lacan).

Diversi sono gli esperimenti e gli studi a sostegno di questo importante concetto:

-a partire dagli esperimenti di Harlow (anche se fatti su cuccioli di scimmia) che mostrano come si dia priorità al bisogno di “calore” rispetto al bisogno di alimentarsi; la vera funzione dell’allattamento è quella di assicurare un contatto continuo e intimo con la madre, allo scopo di garantire sicurezza, soprattutto in momenti di paura o pericolo. Il legame di attaccamento non nasce dunque dal soddisfacimento dei bisogni primari, ma per riceverne protezione e amore (H. F. Harlow, 1958, The nature of love);

-per arrivare a quello di Federico II di Svevia, grande riformatore che, alla ricerca della lingua originaria, della lingua che precede tutte le altre lingue, affidò alcuni neonati a delle balie con la consegna di non rivolgere loro mai nessuna parola, nutrendoli regolarmente in assoluto silenzio e toccandoli quel minimo indispensabile alle cure igieniche; in questo modo secondo il sovrano si sarebbe potuto osservare dal vivo quale lingua i bambini avessero parlato per prima. Il risultato dell’atroce esperimento fu che tutti i bambini, sebbene curati nei loro bisogni di nutrimento e fisiologici, privati del nutrimento della parola e di un accudimento fatto di calore umano e gesti d’affetto, si lasciarono morire (E. Kantorowicz, Federico II Imperatore, traduz. 2017);

-fino a quelli di R. Spitz sulla cosiddetta “deprivazione primaria” che colpiva entro il primo anno di vita quei bambini che, avendo perso i genitori nel corso della Seconda Guerra Mondiale, dovevano subire il trauma dell’ospedalizzazione e che, pur essendo curati con solerzia, sviluppavano sintomi molto gravi (tra cui apatia, inespressività del volto, depressione, anoressia, autismo) fino, nei casi più estremi, a lasciarsi morire per inedia. Spitz affermava: “Questi sintomi scompariranno solo quando il bambino ritroverá la madre o troverá qualcuno che voglia prendersi cura di lui” (R. A. Spitz, 1945, The Psychoanalytic Study of the Child).

Ciò a dimostrazione di come il piano del soddisfacimento dei bisogni non coincide con quello del “riconoscimento del desiderio”.

La maternità non dipende esclusivamente dalla “capacità generativa” della donna, tanto che nel nostro tempo alcune evidenze che regolavano il processo di filiazione sono in crisi: la scienza e il diritto mettono a disposizione la possibilità di avere un figlio senza passare dalla generazione sessuale dei corpi, ed indipendentemente dalla dimensione naturalistica della famiglia. Diventare madre non è piú un destino naturale della donna, così come non è un accadimento che colpisce esclusivamente il suo “corpo”, ma una scelta di libertà e la forte presenza di un “desiderio” da parte della madre di offrire accoglienza ed ospitalità al proprio figlio (già nel proprio utero; in caso contrario un suo rifiuto minerebbe fatalmente la vita del figlio, come accade in alcune forme psicotiche che possono portare all’aborto), al quale bisogna aggiungere un ulteriore “si!” consapevole e responsabile, successivo alla reale venuta al mondo del piccolo.

Il Pronto Soccorso Psicologico-Italia a supporto di una maternità che non sia solo mero atto biologico, ma presa di responsabilità, per arrivare alla quale spesso si ha bisogno di un supporto durante un percorso per nulla facile, fino a renderlo consapevole e funzionale: solo in seguito al raggiungimento e alla realizzazione di un “acconsentire totale al divenire madre” la vita del figlio potrà “umanizzarsi”, trovando quel senso che è mancante al momento del suo ingresso nel mondo.

Dott.ssa Pamela Cantarella, Psicologa Clinica, Responsabile Settore Comunicazione PSP-Italia